10 giugno 2016 – Wlodek Goldkorn e il suo “Bambino nella neve” a Ferrara e Stienta

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Dopo un inverno trascorso come Associazione il Fiume a presentare il libro che ha condensato la ricerca di Luciano Bombarda sui profughi dell’Europa degli anni ’40, abbiamo ripreso ad invitare ospiti che abbiano qualcosa da dire in un mondo in cui tra libri, giornali, web, molti scrivono, forse troppi e pochi leggono.

A trovarci a Ferrara e Stienta è venuto stavolta lo scrittore Wlodek Goldkorn.    Per chi non lo conoscesse è  “un nomade”, nato in Polonia da genitori salvatisi dallo sterminio perchè fuggiti in Russia prima del ’39, scappato con la famiglia nel ’68 dopo che la Polonia si era schierata contro Israele e l’imperialismo mondiale, ramingo per qualche anno tra Israele e Germania fino alla scelta di stabilirsi in Toscana.

Con lui nel presentare il libro “Il bambino nella neve” ci siamo ritrovati a parlare di dignità, di vergogna, di profughi e del futuro dell’Europa.          Chi meglio di un giornalista internazionale dalla vita così ricca di esperienza e in contatto con le maggiori personalità politiche degli ultimi 60 anni poteva parlare di tanti temi con autorevolezza e cognizione dei fatti?

Nei due appuntamenti, il primo alla libreria Feltrinelli di Ferrara, condotto dal Marco Contini, giornalista di Repubblica, e il secondo a Stienta, la conversazione ha toccato molti dei temi della narrazione. Il libro si divide tra il ricordo dell’adolescenza in una Polonia vuota del “mondo di ieri” quello dell’ebraismo orientale da cui tutti i sopravvissuti provenivano, e un viaggio terribile nei campi dello sterminio di cui, se escludiamo Auschwitz, poco conosce la maggioranza delle persone .

Difficile condensare in poche righe la ricchezza della conversazione che Wlodek Goldkorn ha tenuto con grande passione con Marco e con i numerosi presenti in un giorno in cui in sottofondo aleggiava la notizia della diffusione nelle edicole del “Mein Kampf” di Hitler.

Pur non volendo scrivere un libro sulla Shoah l’esperienza della distruzione di un popolo che semplicemente “esisteva”, è fondamentale nell’architettura del testo.    A Goldkorn è, però, servita per fare un passo in più rispetto alla spettacolarizzazione ed estetizzazione della Shoah cui spesso si assiste.

Fondamentale è il concetto della “memoria” che non deve servire a condensare nel distico “mai più” un successivo disimpegno per tutto ciò che non riguarda ebrei, rom, omosessuali o testimoni di Geova.

Godcorn con Chiara Fabian a Stienta

La “memoria” è nel suo caso esercizio di ricordo, omaggio ai familiari uccisi, ricordo di un grande vuoto col quale si deve imparare a convivere, ma anche facoltà politica di intervento su quanto oggi deve suscitare lo sdegno che negli anni del Nazismo non si alzò con forza a denunciare nè le aberrazioni linguistiche nè poi quelle materiali.

“Non mi sento vittima” sostiene Goldkorn, che non chiede giustificazioni in quanto ebreo per il fatto che ne sono stati uccisi sei milioni.

Ciascuno è responsabile delle proprie azioni e come scrive nel libro “io penso che essere stati vittima o carnefice non cambia niente. Conta solo la capacità o l’incapacità di mettersi nei panni altrui; non dico di amare l’altro, compito troppo difficile, quasi impossibile, ma di pensare cosa farei io, come mi sentirei io, quali paure avrei provato io, se fossi nella situazione dell’altro.”

La memoria come mezzo di educazione all’agire nel presente e quindi dai profughi degli anni ’40 ai profughi di oggi non cambia molto e la storia chiude il cerchio.

Una lezione di comportamento che non siamo obbligati ad imparare, ma “dimenticare senza avere imparato” è da idioti si diceva in chiusura…

Wlodek Goldkorn e il direttivo del Fiume