5 aprile 2012 – Come inizia una guerra

una delle foto più note dal sito Osservatorio Balcani

Da quando ho letto che, vent’anni fa, anche il generale bosniaco Jovan Divjak non credeva che sarebbe scoppiata la guerra a Sarajevo, mi sento meno idiota. Anch’io, come il generale, non prendevo sul serio i chiari segnali premonitori, le situazioni inconfondibili. Non ci credevo, o non volevo crederci. Persino il giorno dopo il primo attacco su Sarajevo, tra il cinque e il sei aprile 1992, continuavo a dubitare. E così come me molti vicini, amici, colleghi, familiari.

Attaccarono Sarajevo la notte del cinque aprile 1992 con l’intenzione di dividere la città in due. Per tutta la notte ci bombardarono pesantemente, su di noi si abbatté una fitta pioggia di proiettili che andavano a colpire i sottili muri dei palazzi moderni, udivamo gli assalitori che si urlavano tra di loro secchi ordini: “Di qua”, “là”, “avanti”, “indietro”.

Il sei aprile ci svegliammo, si fa per dire, e ci trovammo spontaneamente con i vicini davanti al palazzo. Alcuni erano ancora in ciabatte, altri indossavano il pigiama che si intravedeva da sotto il giaccone, le donne in vestaglia, spettinate, tutti con le borse sotto gli occhi. Il sentimento comune era “Ma come si permettono?”

Ci domandavamo a quali armi appartenessero le cartucce vuote delle pallottole sparpagliate intorno al palazzo. Erano così tante da formare un tappeto color grigio-marrone, brutto, ancora più sgraziato là verso il fiume dove andava a toccare l’erba giovane color verde tenero, puntellata di primule variopinte. Ci si chiedeva a vicenda: “Hai visto?” “Hai sentito quell’esplosione verso le due stanotte?”, prendevamo le cartucce da terra, le esaminavamo, i veterani della Seconda guerra mondiale, più esperti, le giravano in mano, scuotevano la testa.

La conversazione finì con “Sono stati i papci”, cioè i vigliacchi, oppure i malavitosi, e che bisognava trovarli e punirli, ristabilire l’ordine e poi continuare come sempre. Così, dopo circa un’ora dall’incontro, ognuno era tornato a fare quello che di solito faceva in un soleggiato sabato d’aprile: mamma a fare la spesa, papà nel suo bar a bere il caffè e a leggere il giornale, io in centro a trovare gli amici.

Nei successivi giorni di aprile si alternarono gli attacchi, più frequenti durante la notte, con sporadici spari durante il giorno. In città arrivarono i primi giornalisti stranieri. Non meno confusi di noi, giravano in gruppo, cercando i fatti, la guerra. Uno mi aveva telefonato, chiedendomi di fargli da guida. In tre erano arrivati da Belgrado con una macchina presa a noleggio.

Per la città si passava con difficoltà. Era evidente la confusione della gente e che le autorità non avevano più il controllo della situazione. Ovunque c’erano posti di blocco e barricate che venivano erette da chiunque volesse. Talvolta erano i vicini del condominio o gli abitanti di una via che, in questo modo, cercavano di proteggersi. Nei palazzi furono stabilite nuove regole, il portone si chiudeva a chiave e i vicini si alternavano a fare la guardia notturna. Si tiravano via dalle porte e dalle cassette della posta le targhette con i nomi, non volevamo essere identificati, essere divisi, volevamo rimanere uniti e insieme difendere la casa e la città.

Le barricate spesso erano fatte da gruppi di giovani. A una di queste ci fermarono. Erano degli adolescenti, alcuni armati con vecchi fucili, altri con bastoni. Maneggiavano i fucili in modo non curante, senza rendersi conto del tipo di giocattolo che tenevano tra le mani. Poi, vedo che si passano una bottiglia di grappa. Ma questi qua stanno giocando alla guerra, ho pensato. Ci chiesero i documenti.

Non ero spaventata, non per eroismo, ma per ignoranza. Ero piuttosto arrabbiata con loro, perché mi mettevano in imbarazzo davanti ai colleghi giornalisti. “Che razza di figuraccia stiamo facendo davanti agli stranieri?”, mi chiedevo arrabbiata. Era l’immagine del mio Paese che mi preoccupava, non il pericolo immediato. Ci avevano ordinato di scendere dalla macchina. E a quel punto ho capito: vogliono rubarcela. La Tv di Sarajevo aveva già riportato notizie su alcuni malviventi che approfittavano della situazione per rubare quello che potevano. I tre giornalisti confusi e preoccupati guardavano a volte me e a volte quei giovani armati che ci impartivano ordini. Non capivano la lingua, non sapevano perché eravamo stati fermati, né che cosa stava succedendo. Dissi loro di stare seduti e di non lasciare la macchina. Uscii io a parlare con quelli che ci avevano fermato.

Per una quindicina di minuti abbiamo discusso, anzi litigato. Insistevano che scendessimo dall’auto. Infine arrivammo a un accordo, saremmo andati tutti insieme verso un ufficio, una sorta di comando. Alcuni giovani entrarono in auto, e ci ritrovammo in dieci all’interno di un abitacolo per quattro, altri si sedettero sul cofano davanti, o dietro o sul tetto. Guidando a passo di lumaca siamo arrivati al comando. Là un gruppetto di vecchi, mi pareva che anche quelli stessero giocando alla guerra, si passavano di mano in mano una bottiglia di grappa. Ci chiedono chiarimenti, fanno domande stupide, alla fine si mettono a dare pacche sulle spalle ai giornalisti, qualcuno alza le dita della mano facendo il segno di vittoria, uno balbetta in inglese: “Amici, amici”, e poi un altro spara la domanda cruciale: “Ce l’hai una sigaretta?”….

Tratto dal sito Osservatorio  Balcani e Caucaso Transeuropa