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A proposito dell’assassinio di Vittorio Arrigoni attivista per i diritti della Palestina

bologna

L’associazione Il Fiume ha legami profondi con le tematiche della pace, della legalità, dei diritti dei più deboli, della shoah e della questione Mediorientale.

La vicenda dell’assassinio di Vittorio Arrigoni, attivista pro Palestina, ha scosso noi come tutto il mondo del pacifismo e abbiamo letto tante opinioni e tante posizioni, pro o contro la sua persona ma anche pro o contro Israele e la Palestina.

Premesso che la semplificazione non giova alla complessità della situazione, ci è sembrato molto bello il pensiero di Edgar Keret, uno dei giovani scrittori israeliani più promettenti che nei suoi romanzi e racconti ben esprime il senso di incertezza del futuro che rende la vita in Israele e in Palestina quasi surreale, senz’altro drammatica.

Keret era a Venezia in occasione del festival letterario “Incontri di civiltà” e ha rilasciato al Corriere della Sera la dichiarazione che riportiamo integralmente perchè ci sembra degna di essere divulgata.


 

 

La notizia dell’ omicidio di Vittorio Arrigoni mi è giunta improvvisamente mentre mi trovo impegnato nel festival letterario a Venezia, che verte sul tema a dir poco ambizioso degli «incontri di civiltà».

Riguardo agli esecutori materiali del delitto, è impossibile penetrare nella mente di un gruppo di persone capaci di uccidere a sangue freddo un pacifista che era venuto ad aiutare il loro stesso popolo.

Ancor più difficile farlo, quando ci si trova nella splendida cornice di Venezia.

La madre di Vittorio Arrigoni ha chiesto che il corpo del figlio venga riportato in Italia senza passare da Israele, perché l’ attivista aveva combattuto tutta la vita contro lo Stato ebraico.

Il suo gesto, è stato detto, è simbolico. E difatti incarna un simbolo potente.

È il simbolo della deprimente radicalizzazione della regione in cui vivo e si traduce nell’ intransigenza di Israele, che occupa da più di quarant’ anni i territori palestinesi; nell’ intransigenza degli assassini fondamentalisti islamici che le hanno ucciso il figlio e nell’ intransigenza del gesto della madre.

Un gesto che, nel voler distinguere il bene dal male, nega completamente la possibilità di qualsiasi ambiguità e di ogni sfumatura di grigio.

La terra di Israele è forse tanto empia da non poter essere attraversata da un morto? E i suoi abitanti sono forse tanto abbietti che il loro semplice contatto rischia di profanare quel corpo?

Sarà forse la negazione dell’ esistenza di Israele e dei sette milioni di ebrei e musulmani che vi abitano ad accelerare quel processo di pace e quella liberazione per la quale il figlio aveva varcato i mari e combattuto per tutta la sua vita?

Mi auguro che Vittorio Arrigoni sia stato più pro palestinese che anti israeliano. Eppure, anziché incarnare un gesto di compassione e di umanità verso il popolo che aveva voluto aiutare, il suo ultimo viaggio diventa simbolo dell’ odio e del rifiuto verso coloro che considerava nemici.

E se questo è quanto la mia regione sa offrire in memoria di un pacifista assassinato, quali possono essere le speranze per una pace futura? 
Keret Etgar
(Traduzione di Rita Baldassarre)  “corriere della sera” 17/04/2011


 

BUONA PASQUA 2011


Pasqua è voce del verbo ebraico “pèsah”. Passare.

Non è festa per residenti, ma per migratori che si affrettano al viaggio. Da non credente vedo le persone di fede così, non impiantate in un centro della loro certezza ma continuamente in movimento sulle piste.

Chi crede è in cerca di un rinnovo quotidiano dell’energia di credere, scruta perciò ogni segno di presenza.
Chi crede, insegue, perseguita il creatore costringendolo a manifestarsi.

Perciò vedo chi crede come uno che sta sempre su un suo “pèsah”, passaggio.

Mentre con generosità si attribuisce al non credente un suo cammino di ricerca, è piuttosto vero che il non credente è chi non parte mai, chi non s’azzarda nell’altrove assetato del credente.

Ogni volta che è Pasqua, urto contro la doppia notizia delle scritture sacre, l’uscita d’Egitto e il patibolo romano della croce piantata sopra Gerusalemme.
Sono due scatti verso l’ignoto. Il primo è un tuffo nel deserto per agguantare un’altra terra e una nuova libertà. Il secondo è il salto mortale oltre il corpo e la vita uccisa, verso la più integrale resurrezione.

Pasqua/pèsah è sbaraglio prescritto, unico azzardo sicuro perché affidato alla perfetta fede di giungere. Inciampo e resto fermo, il Sinai e il Golgota non sono scalabili da uno come me, che pure in vita sua ha salito e sale cime celebri e immense. Restano inaccessibili le alture della fede.

Allora sia Pasqua piena per voi che fabbricate passaggi dove ci sono muri e sbarramenti, per voi apertori di brecce, saltatori di ostacoli, corrieri a ogni costo, atleti della parola pace.

Erri de Luca

Costituzione della Repubblica Italiana – Disposizione transitoria XII

l'ultima pagina della Costituzione

Sei sono i Titoli della Costituzione Italiana, e 139 i suoi Articoli.
Poi troviamo le Disposizioni Transitorie e finali che sono 18, alla fine le firme di Enrico de Nicola, Umberto Terracini e Alcide De Gasperi, la data è 27 dicembre del 1947.

Oltre a queste firme va ricordata la composizione dell’Assemblea Costituente, il fior fiore delle forze politiche di schieramenti diversi, unite nella comune opposizione ad una dittatura, il fascismo, che aveva decretato la distruzione del paese con l’entrata nella seconda guerra mondiale.

La Costituzione ebbe il compito di tracciare le linee guida per l’ordinamento dello Stato, in modo da scongiurare il più possibile la tentazione di governi autoritari, affidando al Parlamento l’esercizio delle principali funzioni democratiche.

Per quanto, oggi, la pratica metta in secondo piano la dinamica democratica e tenda a forzare le prerogative del Parlamento, c’è la Disposizione Transitoria n. XII che recita:

“E’ vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”

Lo scorso 29 marzo a firma dei senatori del Pdl Cristiano De Eccher, Fabrizio Di Stefano, Francesco Bevilacqua, Giorgio Bornacin, Achille Totaro e del senatore Fli Egidio Digilio (poi ritiratosi) è stato presentato un DDL Costituzionale volto ad abolire questa disposizione, nonché il reato di apologia del fascismo.

Firme illustri le prime che abbiamo citato, di persone che avevano combattuto e rischiato la loro vita nella lotta di resistenza al nazifascismo. 

Firme di qualche politico dell’ultima ora, le seconde.  Politici della Seconda Repubblica, che corrono l’unico rischio non essere rieletti alla prossima tornata elettorale.

E sulle motivazioni?  Meglio non indagare perché, abbiam capito che i treni partivano in orario, che le paludi sono state bonificate, e che la storia è diversa a seconda della prospettiva da cui la guardi, ma non possiamo privilegiare la prospettiva di chi ha preso il potere con la violenza, in un momento di latitanza della politica e dello Stato, con conseguenze gravissime per il paese e per il mondo.

Non può essere la fortuna o la sfortuna a decretare la bontà di un sistema politico, ma l’oggettività della sua azione, così il fascismo non sarebbe stato positivo se solo la Germania avesse vinto la guerra!

Non si cancellano i crimini della storia, certo si può relativizzarli, ma la sostanza resta e nel caso dell’esperienza dell’Italia fascista, il peso è di quelli che curvano le spalle e che ancora oggi ci fanno tenere la faccia a terra, incapaci di essere guida di un’Europa che arranca.

Terremo alta la guardia e sottolineeremo i nomi dei firmatari del decreto, in attesa di trovarli e contrastarli, nelle liste di chi si propone come portavoce dei diritti dei cittadini e del progresso della Nazione.

 

wendy di paoli

                                    Università di Bologna, concorso fotografico “Scatti di Democrazia”
                                                             Wendy De Paoli “Non sempre”

24 MARZO 2011 – SIAMO IN GUERRA!

“Ci è chiarissimo che le ragioni autentiche dell’intervento militare in Libia non sono di natura umanitaria: le ricchezze energetiche, gli assetti di potere dei blocchi mondiali, persino l’ansia da prestazione del presidente francese. Tutto chiaro. E l’articolo 11 della nostra Costituzione, e il diritto all’autodeterminazione.

Ma il rispetto della sovranità nazionale della Libia e il ripudio della guerra come si sposa, nelle coscienze durissime e purissime, con l’invocazione di aiuto rivolta proprio a noi da quella gente su cui Gheddafi reclama il diritto di disporre facendone se crede, visto che è roba sua, carne da macello?

Non si doveva arrivare alla guerra: giusto. Bisognava combattere Gheddafi prima e con altre armi: sacrosanto. Lo chiediamo da anni. Questo governo invece lo ha trattato da statista e ha occultato i suoi crimini. Oggi lo combatte, ed è un voltafaccia disgustoso. Spara contro le armi che gli ha venduto.”

Così scrive Concita de Gregorio nell’editoriale “In coscienza e nel dubbio” e  prosegue, infine, sostenendo che l’intervento a difesa degli  insorti va condotto,  mettendo le mani nel sangue e nel fango, perché troppo comodo è starne fuori e pontificare.

E’ vero che starne fuori è comodo ma nel “dubbio” che la giornalista cita, ci sta anche la mancanza di chiarezza su tutto quel che riguarda questa guerra in cui ci siamo svegliati, un giorno di primavera, sorpresi e attoniti, nonostante tutti i nostri mezzi di informazione.

Il Raìs spara sui suoi concittadini, ma chi fa una rivolta mette in conto anche questo, di certo il Raìs sparava anche sui profughi che ributtava dai centri di raccolta nel deserto, perché non venissero in Italia.

Non è chiaro a nessuno, ci pare nemmeno all’Alleanza, quando e perché si deve intervenire in un paese sovrano, perché tanti ce ne sono a sparare sulle folle che manifestano.

Non è chiaro nulla, ma è vergognoso tutto, e nel frattempo in Palestina, che per la prima volta viene lasciata a se stessa dal mondo arabo, Al Fatah e Hamas sono in contrasto tra loro e si dividono anche il controllo di Gaza e Cisgiordania, mentre il Governo di Israele, per non sbagliare spara e colpisce civili e il terrorismo palestinese risponde con le bombe alle fermate dei bus.

In mezzo a tutta questa confusione gli unici inascoltati sono quelli che da tutte le parti chiedono la pace, ma la pace non rende, a dispetto della Ragione.

La guerra invece ha un sacco di vantaggi, tra i quali anche quello di distrarre …

18 marzo 2011 – UN ITALIANO DIVERSO – Giacomo Matteotti

libro di romanato


La data del 17 marzo 1861, proclamazione del Regno d’Italia,  viene celebrata quest’anno per il valore simbolico legato ai 150 anni dell’unità del nostro paese.

L’unità dell’Italia che oggi conosciamo, si compirà molti anni più tardi, addirittura nel dopoguerra.

La celebrazione è di carattere storico ma assume anche un valore civile e politico in relazione alle dichiarazioni anti-unitarie di una parte delle forze presenti nel parlamento e nella società civile.

Che Italia sarebbe un’Italia fatta solo di Veneto? E se il Trentino chiedesse l’annessione all’Austria? E se Sardegna e Sicilia facessero da se?

Che Italia sarebbe senza le figure degli italiani che l’hanno costruita, con il loro impegno e con la loro vita?

Il “Fiume” nell’appuntamento di venerdì 18 marzo, alle ore 20.30, nella Sala Consigliare del Municipio di Stienta (Ro), presenta, per l’occasione,  la biografia scritta da Gianpaolo Romanato, di Giacomo Matteotti che fu un rivoluzionario e protagonista di un’Italia divisa tra fascismo e sete di giustizia sociale.

“Uomo del post-risorgimento, estraneo alle mitologie dell’unificazione, Matteotti appartiene alla generazione dei Prezzolini, dei Papini, di coloro cui importava il futuro, non il passato.  Scontenti, ribelli, inquieti. Aveva la stoffa e la preparazione dell’intellettuale, con solidi studi di diritto e di economia.

Ma in lui era più forte la sensibilità del politico, dell’uomo d’azione. Viveva in una provincia povera, depressa, dove i contrasti fra miseria e ricchezza erano sfrontati e i rapporti sociali dominati dall’ingiustizia e dalla prepotenza.

La sua famiglia aveva accumulato in pochi anni una notevole fortuna, che gli avrebbe permesso di vivere agiamente di rendita. E invece divenne socialista. Allora il socialismo era sinonimo di lotta di classe, di rivoluzione. E Matteotti fu un rivoluzionario. Contro suoi interessi e contro la sua classe d’appartenenza, che non glielo perdonerà più”