Da qualche anno, grazie ad amici veneziani, ho il privilegio di celebrare il séder di Pesach, ossia la cena della Pasqua ebraica, nella ricchezza e allo stesso tempo nella dimensione familiare del suo rito.
Ieri sera (giovedì santo per gli ebrei non per i cristiani a parte chi di religione sa poco) la cena si è svolta via Zoom, una delle tante piattaforme di video chiamate! Nel tempo di Covid-19 anche i riti religiosi si devono adeguare e così l’ebraismo come il cattolicesimo si trasformano in banchi di prova della nostra tecnologia.
La cena di Pasqua, il sèder, viene introdotta da un articolato rituale in cui la lettura dell’Haggada’ racconta della schiavitù in Egitto, delle piaghe mandate al Faraone, della fuga senza possibilità di preparare il pane, non essendoci il tempo per la lievitazione, e del passaggio del Mar Rosso con la liberazione finale. Come sempre la Bibbia è un archetipo che sintetizza la condizione dell’essere umano con i suoi momenti che si ripetono e ne’ caratterizzano l’essenza.
L’uomo è sottoposto a ristrettezze e privazioni per la sua natura terrena che rimanda ad un assoluto in cui tutto viene risolto. Il Santo Benedetto è un soprannaturale che è però tanto vicino all’uomo e lo segue nei suoi passi. Questa circolarità storica ma anche filosofica viene sintetizzata in un canto la Chad Gadya che gli ebrei di tutto il mondo cantano in molte lingue e versioni. Per far capire a tutti di che si tratta basta citare “Alla fiera dell’est” di Angelo Branduardi che ne è la versione pop. I “giudii veneziani” ne hanno una versione in dialetto che narra del “Sior pare che ga compra’ on capretto par on susetto”. Per legare questo sèder via Zoom ancor più ai tempi che corrono devo confessare che il 16 febbraio sono stata a Vo’ Vecchio alla presentazione di un libro sulla vicenda delle famiglie ebree padovane internate nella villa Venier dopo l’8 settembre e da qui deportate ad Auschwitz.
Dentro la villa/campo di concentramento, c’erano alcuni bambini, prigionieri, che nel Capodanno del ‘44 diedero vita ad un piccolo spettacolo basato sul canto del Chad Gadya. Prima di essere deportati e uccisi i bambini di Vo’ rappresentarono quella circolarità del tempo dell’uomo oltre che del popolo ebraico.
Nella storia tutto si lega e tanto più nell’ebraismo. Dal focolaio di Vo’ (piccolo borgo tra i Colli Euganeii ) è partita una piaga, sotto forma di virus invisibile, che tiene prigionieri i nostri bambini e stavolta non sono stati i Babilonesi o i Nazisti ma la natura stessa che ha colpito l’uomo duramente.
La coincidenza mi ha colpito e accompagnato in questo tempo speciale. Da Vo’ Vecchio, alle piaghe, al canto che cura, alla prigionia, alla liberazione per alcuni ma anche alla morte per quei bambini di Vo’, tutto si tiene nel mondo e si ripete.
Il soprannaturale si offre come elemento salvifico e preannuncia, sia per gli ebrei che per i cristiani, il tempo dell’uscita dalle strettezze della schiavitù con un passaggio e una resurrezione a nuova libertà.