C’era qualcuno, si, che lo guidava: lui non era più Max, era già Abramo, e quella donna era soltanto un tramite, per questo con in più tutti quegli anni passò sulla battigia come un’onda, meravigliato dalla propria forza, spingendo la lentezza ad un tal limite che la turca annegò senza parole. “Che stai cercando tu dentro di me tu che sei più vecchio di mio padre?” domandavano gli occhi della bella ch’era ancora affamata di racconto. E intanto lui scese al fondo più oscuro e più triste della felicità, da cui riemerse tenendo tra i denti, ansimando, il frutto dell’assenza: esattamente quello che cercava. |
|
|
. |
Adesso che ho concluso questa storia prigioniera di sillabe contate, mi son pentito già di averlo fatto perché nient’altro voi potrete aggiungere a questa cosa destinata a crescere come il Danubio che scende al Mar Nero gonfiato dal Tibisco, dalla Morava e dai fiumi gemelli di Slavonia.
Non da me (lo sapete) è stata scritta, ma da coloro che l’hanno ascoltata: e il solo modo perché non si fermi questa corrente che si è messa in moto è che voi nascondiate il manoscritto in uno sgabuzzino o in una cantina per recitarlo poi ad alta voce a quelli che ascoltare vi vorranno; soltanto così, vi prego di credermi, voi lo ripescherete dal ricordo proprio com’era, libero e leggero.
Nove mesi ci ho messo a costruirlo, il tempo necessario ad una creatura, e dunque è tempo che senza zavorre, con le sue gambe, anche lui se ne vada, questo racconto nato dal cammino, dal battito del cuore e dal respiro.
Paolo Rumiz