“Ogni tanto fa bene, farsi un po’ di male” si lascia scappare Elvira Mujcic, nel mezzo del suo doppio incontro con gli amici de il Fiume, prima a Ferrara in Feltrinelli e poi a Stienta. In effetti parlare e scrivere di una vita che non è semplice scorrere del tempo, tra piccole e grandi difficoltà della gente comune, ma pittosto, dramma, di una adolescente in mezzo ad una guerra, non è facile.
Al di la della sequenza di cronache di guerra e di vita nei campi profughi, quello che Elvira lascia trasparire è una serenità raggiunta con grande difficoltà e facendo appello a tutti i mezzi possibili, tra i quali la scrittura è uno dei più importanti. La sua non è scrittura giornalistica, ma introspezione nell’animo di una adolescente, per la quale, la figura del padre, ucciso dalla pulizia etnica serba, rimane un unicum, incorruttibile, se non per lo sfuocarsi della memoria, che le sue ultime lettere speditele, servono a vivificare drammaticamente.
Elvira dà una grande lezione delle dinamiche psicologiche delle situazioni estreme, quando risponde alle domande sulla paura della morte, e afferma che durante la guerra si pensa alla vita, a come garantirla, attimo dopo attimo, e solo dopo, quando tutto si calma, si pensa alla morte.
Anche dopo, più che la morte e la sua paura, è la “difficoltà di vivere” che prevale, con i sensi di colpa e gli interrogativi sul perché di un destino, anziché di un altro, ed ecco che, oltre alla terapia psicologica, scrivere è la grande medicina.
Il suo diario è iniziato in bosniaco, e man mano che la lingua madre veniva soppiantata dall’italiano, anche la sua scrittura è diventata la nuova lingua che sembrava dare al ricordo il giusto distacco, un filtro necessario, per raccontare di persone e fatti così dolorosi (“guerra, in italiano è parola meno dura di rat in bosniaco“, afferma sempre Elvira). Così, mentre il bosniaco respingeva, l’italiano accoglieva la giovane profuga, oggi cittadina italiana.
Alla domanda su cosa pensa della categoria “letteratura della migrazione”, con cui si classificano i libri dei nuovi immigrati, Elvira ammette di aver provato un leggero fastidio iniziale, ma sostiene che sarà la produzione successiva a dare una direzione alla scrittura, che dovrà liberarsi dalla sua storia personale e prendere invece una strada propria.
“Le etichette le danno gli altri, per comodità“.
Alla fine abbiamo anche ricevuto una lezione di letteratura contemporanea!
Alcuni scatti della giornata di sabato 17 marzo 2012