Ho conosciuto Shlomo Venezia grazie a Luciano Bombarda.
Per mia natura sono troppo schiva per avvicinarmi a persone che ammiro, ma con Luciano era facile avvicinarsi a chi gli aveva aperto già la propria anima e messo in mano la propria vita interiore. Quando mi propose di andare con lui a sentire Shlomo a Rimini, in uno degli incontri organizzati dall’ufficio Memoria e dalla sua direttrice Laura Fontana, era il 2006 e non ci ho pensato un attimo.
Da quella sera gli incontri con Shlomo si sono moltiplicati e così, dietro Luciano “caterpillar”, io e molti altri amici de Il Fiume abbiamo approfondito la conoscenza di Shlomo, siamo entrati nella sua vita degli ultimi anni riuscendo a capire forse qualcosa il più del “mestiere del testimone”.
Non “mestiere” nel senso che i negazionisti danno a questo compito, ma nel significato che Cesare Pavese dava della sofferenza della vita in cui il vivere pratico deve convivere con la poesia o, nel caso di Shlomo, con il compito difficile del testimone.
“Non si esce mai dal campo” diceva Shlomo e posso testimoniarlo per averlo sentito più volte, nel mezzo di una normale conversazione, passare, su sollecitazione di un’immagine, un dettaglio di quel che stava vivendo in quel momento al ricordo della tragica esperienza.
La sua vita di uomo non era distinguibile da quella di Marika, la giovane moglie incontrata nel tempo della riabilitazione, e con la quale aveva diviso il carico di una tragedia come la sua esperienza al Sonderkommando.
Senza di lei sarebbe stato difficile, se non impossibile, sopportare quel carico anche se Shlomo aveva una personalità forte e facilità di interazione col mondo che lo circondava.
Mi ricordava tanto mio nonno, dal quale, come internato IMI, avevo appreso le prime storie sulla guerra e i campi di concentramento e inconsciamente ero entrata, seppur con l’approccio italiano, dentro questa parte della storia.
Il viaggio più bello con Shlomo Venezia è stato quello a Salonicco, con e grazie alla provincia di Rovigo e al progetto europeo “Forget us not”, propostoci dalla Presidente Tiziana Virgili. Il ritorno a casa di Shlomo in veste ufficiale di testimone è stato emozionante, così come vedere come si aggirava con sicurezza nelle stradine della città vecchia a ridosso del fronte del porto, come si intratteneva in greco nel piccolo ristorante in cui ordinò piatti semplici della tradizione che se fossimo stati noi da semplici turisti non avremmo saputo come chiedere! La sua testimonianza fu importante e significativa e portata per la prima volta nella sua città natale.
Shlomo diventò come un padre per noi e con lui Marika, inseparabile. Con il Fiume ci furono altre memorabili occasioni di testimonianza come quella del febbraio del 2010 all’Ateneo Veneto a Venezia, altra città fondamentale per lui, quella da cui i suoi avi erano passati dopo la cacciata dalla Spagna e che aveva dato il nome alla sua famiglia.
Shlomo era forte, era anche un uomo di spirito anche se il suo riso non era mai aperto e pienamente felice, c’era sempre un’ombra in lui e il discorso, prima o poi finiva nel campo.
Non sappiamo cosa sia stato essere i figli di Shlomo Venezia, ma se la sua volontà di parlare spentasi alle prime esperienze in cui le persone dimostravano di non voler sapere, non ha turbato l’infanzia dei suoi ragazzi, di sicuro la successiva ansia di lasciare traccia e raccontare ha segnato la vita di tutti quelli che lo conoscevano e amavano.
Così come ha segnato la nostra e speriamo quella di coloro che lo hanno ascoltato con attenzione nel suo peregrinare.
M.Chiara Fabian