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Si ha democrazia quando il popolo può controllare l’operato del governo: accetterò il controllo del popolo, ho bisogno dell’energia del popolo, voglio ascoltare la voce del popolo.
Aung San Suu Kyi, 14 novembre

11 maggio 2012- Santino Spinelli presenta il libro “Rom Genti libere. Storia , arte e cultura di un popolo misconosciuto”

santino spinelli

Santino Spinelli sconosciuto ai più, come lo è il popolo Rom a cui appartiene, è docente universitario, scrittore e musicista raffinato e ha presentato il suo ultimo libro “Rom, genti libere” (Dalai Editore, 2012)  in un doppio incontro, nella libreria “Sognalibro” di Ferrara e nella Sala Consigliare di Stienta (RO).

Con lui, a Ferrara, hanno dialogato il rabbino Luciano Caro che ha ammesso di non conoscere il popolo Rom, ma di saperlo molto simile al popolo ebraico per destino di migrazioni e persecuzioni, e il giovane storico Luca Bravi che da anni fa ricerca sul Porrajmos, ossia il nome che in lingua romanì si da alla shoah dei Rom.

Dagli incontri è emerso che non si parla mai della ricchezza culturale e degli aspetti positivi del popolo Rom, che viene identificato con l’eteronimo di “zingari” con tutti i riflessi negativi che il termine ha raccolto su di sé da secoli di persecuzioni. 
Nel breve spazio che abbiamo, ci preme invertire la tendenza e rimandare alla lettura del libro di Santino Spinelli l’accurata ricostruzione storica sulle origini e le migrazioni del popolo Rom, per soffermarci su quanto di bello e ricco avrebbe da offrire la cultura Rom se solo qualcuno avesse l’intelligenza di chiederlo.

Per la loro origine orientale e indiana in particolare, i Rom non hanno una concezione del tempo da società industriale che lo parcellizza e divide secondo i tempi del lavoro, il loro tempo è diviso in giorno e notte, tempo dell’attività e del riposo.  Tra i valori principali c’è quello della famiglia allargata che diventa un vero e proprio clan solidaristico in cui tutti contribuiscono per quel che possono a garantire il sostentamento dividendosi i compiti e soprattutto portando agli anziani il massimo rispetto.  il rabbino Luciano Caro, Spinelli e Luca Bravi
Un popolo che non ha mai dichiarato una guerra, che non ha rivendicato terre, seppur non rifiutando la stanzialità che la strumentale mitologia del mondo dei Gagi (gli altri, i non Rom) non riconosce possibile per i Rom. Un popolo pacifico che ha dovuto cambiare mestieri nel corso della storia per le evoluzioni della società industriale, ma che era portatore di grandi conoscenze ad esempio nell’allevamento e l’addestramento dei cavalli.   Un popolo maestro nell’arte circense e soprattutto con una straordinaria conoscenza istintiva della musica che ha regalato al mondo sotto forma di flamenco e jazz e che ora, proprio grazie al lavoro di Santino Spinelli deve elaborare sotto forma sinfonica.  Non a caso Spinelli è direttore dell’Orchestra Europea per la Pace che suona musiche definite dall’autore “etnosinfoniche”.

Genti libere, insomma, che hanno saputo mantenere un’identità che per gli altri è alterità e si nutre di romfobia, neologismo che ben esprime questo distacco da una cultura della cui arte, storia, capacità narrativa non si sa nulla ma di cui si pretende di sapere tutto.

L’incontro finisce lasciando una gran voglia di conoscere quello che le parole di Santino hanno solo introdotto.

l'incontro a Stienta

27 aprile 2012 – FIGLIO DI NESSUNO di Boris Pahor e Cristina Battocletti

Il professor Boris Pahor, scrittore sloveno, in predicato per il Nobel della letteratura per la Slovenia, non è a Ferrara per la prima volta.  Con noi de “Il Fiume” ha già incontrato, in due occasioni, i ragazzi dei Licei cittadini e dell’Univesità per parlare di shoah, vista dalla parte degli internati per motivi politici.

Lo scrittore ha sempre sottolineato che non si parla abbastanza di chi come  rom, omosessuali, testimoni di Geova, portatori di handicap, ha portato il peso, assieme agli ebrei,  della furia  nazista nell’Europa degli anni 30-40, ma non è solo di shoah che parlerà venerdì 27 aprile, alle ore 17.00, nella prestigiosa Sala degli Stemmi del Castello estense.

Grazie al patrocinio della Provincia di Ferrara, e alla collaborazione tra Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara ed Associazione Il Fiume, il professor Pahor,  assieme alla giornalista del Sole 24 ore Cristina Battocletti, verrà a presentare la propria autobiografia, scritta a quattro mani con la giovane scrittrice originaria di Udine.

Una vita intensa, iniziata nel dolore dell’identità slovena negata, continuata nel lager di Natzweiler-Struthof in Alsazia, e trascorsa nella difficoltà di collocarsi tra le correnti politiche e letterarie del dopoguerra burrascoso di una Trieste che è la summa degli umori e degli orrori del “

5 aprile 2012 – Come inizia una guerra

una delle foto più note dal sito Osservatorio Balcani

Da quando ho letto che, vent’anni fa, anche il generale bosniaco Jovan Divjak non credeva che sarebbe scoppiata la guerra a Sarajevo, mi sento meno idiota. Anch’io, come il generale, non prendevo sul serio i chiari segnali premonitori, le situazioni inconfondibili. Non ci credevo, o non volevo crederci. Persino il giorno dopo il primo attacco su Sarajevo, tra il cinque e il sei aprile 1992, continuavo a dubitare. E così come me molti vicini, amici, colleghi, familiari.

Attaccarono Sarajevo la notte del cinque aprile 1992 con l’intenzione di dividere la città in due. Per tutta la notte ci bombardarono pesantemente, su di noi si abbatté una fitta pioggia di proiettili che andavano a colpire i sottili muri dei palazzi moderni, udivamo gli assalitori che si urlavano tra di loro secchi ordini: “Di qua”, “là”, “avanti”, “indietro”.

Il sei aprile ci svegliammo, si fa per dire, e ci trovammo spontaneamente con i vicini davanti al palazzo. Alcuni erano ancora in ciabatte, altri indossavano il pigiama che si intravedeva da sotto il giaccone, le donne in vestaglia, spettinate, tutti con le borse sotto gli occhi. Il sentimento comune era “Ma come si permettono?”

Ci domandavamo a quali armi appartenessero le cartucce vuote delle pallottole sparpagliate intorno al palazzo. Erano così tante da formare un tappeto color grigio-marrone, brutto, ancora più sgraziato là verso il fiume dove andava a toccare l’erba giovane color verde tenero, puntellata di primule variopinte. Ci si chiedeva a vicenda: “Hai visto?” “Hai sentito quell’esplosione verso le due stanotte?”, prendevamo le cartucce da terra, le esaminavamo, i veterani della Seconda guerra mondiale, più esperti, le giravano in mano, scuotevano la testa.

La conversazione finì con “Sono stati i papci”, cioè i vigliacchi, oppure i malavitosi, e che bisognava trovarli e punirli, ristabilire l’ordine e poi continuare come sempre. Così, dopo circa un’ora dall’incontro, ognuno era tornato a fare quello che di solito faceva in un soleggiato sabato d’aprile: mamma a fare la spesa, papà nel suo bar a bere il caffè e a leggere il giornale, io in centro a trovare gli amici.

Nei successivi giorni di aprile si alternarono gli attacchi, più frequenti durante la notte, con sporadici spari durante il giorno. In città arrivarono i primi giornalisti stranieri. Non meno confusi di noi, giravano in gruppo, cercando i fatti, la guerra. Uno mi aveva telefonato, chiedendomi di fargli da guida. In tre erano arrivati da Belgrado con una macchina presa a noleggio.

Per la città si passava con difficoltà. Era evidente la confusione della gente e che le autorità non avevano più il controllo della situazione. Ovunque c’erano posti di blocco e barricate che venivano erette da chiunque volesse. Talvolta erano i vicini del condominio o gli abitanti di una via che, in questo modo, cercavano di proteggersi. Nei palazzi furono stabilite nuove regole, il portone si chiudeva a chiave e i vicini si alternavano a fare la guardia notturna. Si tiravano via dalle porte e dalle cassette della posta le targhette con i nomi, non volevamo essere identificati, essere divisi, volevamo rimanere uniti e insieme difendere la casa e la città.

Le barricate spesso erano fatte da gruppi di giovani. A una di queste ci fermarono. Erano degli adolescenti, alcuni armati con vecchi fucili, altri con bastoni. Maneggiavano i fucili in modo non curante, senza rendersi conto del tipo di giocattolo che tenevano tra le mani. Poi, vedo che si passano una bottiglia di grappa. Ma questi qua stanno giocando alla guerra, ho pensato. Ci chiesero i documenti.

Non ero spaventata, non per eroismo, ma per ignoranza. Ero piuttosto arrabbiata con loro, perché mi mettevano in imbarazzo davanti ai colleghi giornalisti. “Che razza di figuraccia stiamo facendo davanti agli stranieri?”, mi chiedevo arrabbiata. Era l’immagine del mio Paese che mi preoccupava, non il pericolo immediato. Ci avevano ordinato di scendere dalla macchina. E a quel punto ho capito: vogliono rubarcela. La Tv di Sarajevo aveva già riportato notizie su alcuni malviventi che approfittavano della situazione per rubare quello che potevano. I tre giornalisti confusi e preoccupati guardavano a volte me e a volte quei giovani armati che ci impartivano ordini. Non capivano la lingua, non sapevano perché eravamo stati fermati, né che cosa stava succedendo. Dissi loro di stare seduti e di non lasciare la macchina. Uscii io a parlare con quelli che ci avevano fermato.

Per una quindicina di minuti abbiamo discusso, anzi litigato. Insistevano che scendessimo dall’auto. Infine arrivammo a un accordo, saremmo andati tutti insieme verso un ufficio, una sorta di comando. Alcuni giovani entrarono in auto, e ci ritrovammo in dieci all’interno di un abitacolo per quattro, altri si sedettero sul cofano davanti, o dietro o sul tetto. Guidando a passo di lumaca siamo arrivati al comando. Là un gruppetto di vecchi, mi pareva che anche quelli stessero giocando alla guerra, si passavano di mano in mano una bottiglia di grappa. Ci chiedono chiarimenti, fanno domande stupide, alla fine si mettono a dare pacche sulle spalle ai giornalisti, qualcuno alza le dita della mano facendo il segno di vittoria, uno balbetta in inglese: “Amici, amici”, e poi un altro spara la domanda cruciale: “Ce l’hai una sigaretta?”….

Tratto dal sito Osservatorio  Balcani e Caucaso Transeuropa

Elvira Mujcic a Ferrara e Stienta per parlare di Bosnia e non solo

elvira mujcic

Ogni tanto fa bene, farsi un po’ di male” si lascia scappare Elvira Mujcic, nel mezzo del suo doppio incontro con gli amici de il Fiume, prima a Ferrara in Feltrinelli e poi a Stienta.  In effetti parlare e scrivere di una vita che non è semplice scorrere del tempo, tra piccole e grandi difficoltà della gente comune, ma pittosto, dramma, di una adolescente in mezzo ad una guerra, non è facile.

Al di la della sequenza di cronache di guerra e di vita nei campi profughi, quello che Elvira lascia trasparire è una serenità raggiunta con grande difficoltà e facendo appello a tutti i mezzi possibili, tra i quali la scrittura è uno dei più importanti.  La sua non è scrittura giornalistica, ma introspezione nell’animo di una adolescente, per la quale, la figura del padre, ucciso dalla pulizia etnica serba, rimane un unicum, incorruttibile, se non per lo sfuocarsi della memoria, che le sue ultime lettere speditele,  servono a vivificare drammaticamente.

Elvira dà una grande lezione delle dinamiche psicologiche delle situazioni estreme, quando risponde alle domande sulla paura della morte, e afferma che durante la guerra si pensa alla vita, a come garantirla, attimo dopo attimo, e solo dopo, quando tutto si calma, si pensa alla morte.

Anche dopo, più che la morte e la sua paura, è la “difficoltà di vivere” che prevale, con i sensi di colpa e gli interrogativi sul perché di un destino, anziché di un altro, ed ecco che, oltre alla terapia psicologica, scrivere è la grande medicina.

Il suo diario è iniziato in bosniaco, e man mano che la lingua madre veniva soppiantata dall’italiano, anche la sua scrittura è diventata la nuova lingua che sembrava dare al ricordo il giusto distacco, un filtro necessario, per raccontare di persone e fatti così dolorosi (“guerra, in italiano è parola meno dura di rat  in bosniaco“, afferma sempre Elvira).    Così, mentre il bosniaco respingeva, l’italiano accoglieva la giovane profuga, oggi cittadina italiana.

Alla domanda su cosa pensa della categoria “letteratura della migrazione”, con cui si classificano i libri dei nuovi immigrati, Elvira ammette di aver provato un leggero fastidio iniziale, ma sostiene che sarà la produzione successiva a dare una direzione alla scrittura, che dovrà liberarsi dalla sua storia personale e prendere invece una strada propria.
Le etichette le danno gli altri, per comodità“.

Alla fine abbiamo anche ricevuto una lezione di letteratura contemporanea!

Alcuni scatti della giornata di sabato 17 marzo 2012elvira mujcic e luciano bombarda  
                                       
elvira mujcic e fabrizio fenzi

 
 

elvira, luciano e ludovica

17 marzo 2012- Al di là del caos. Cosa resta dopo Srebrenica

elvira mujcic

AL DI LA’ DEL CAOS

Srebrenica è stata una delle pagine più buie della storia recente. Dopo il genocidio del Ruanda, compiutosi nel luglio del 1994, lontano ma ancora vivo nella sua drammaticità, ancora una volta l’Europa è stata al centro di uno sterminio di massa.

Nel luglio del ’95, le forze serbo-bosniache di Ratko Mladic, nonostante la presenza di Forze di protezione olandesi dell’ Unprofor, massacrarono circa 8000 uomini e ragazzi bosniaci.

Cifre e fatti agghiaccianti, ma quel che atterrisce di più, oltre alla vicinanza all’occidente civilizzato, è la inutile presenza e la totale inefficacia degli eserciti dell’UE e dell’ONU.

Sia in Ruanda che in Bosnia-Erzegovina, l’intervento delle forze di interposizione, o come si vogliano chiamare, non ha avuto nessun effetto pratico sulle violenze contro i civili.

Questa evidenza non ha portato a una revisione e riformulazione dei protocolli di intervento o se lo ha fatto non è la cosa che più risalta, mentre sconvolge il fatto che i soldati di stanza a Srebrenica siano stati insigniti dall’Olanda, con l’avvallo della commissione Europea, di una onorificenza per il coraggio dimostrato.

Elvira Mujcic, nel 93 fuggì da Srebrenica prima del massacro, ma lo visse a distanza con tutto l’orrore che lo accompagnò.

Oggi giovane donna, ma soprattutto scrittrice, Elvira Mujcic vive a Roma ed è una delle voci culturalmente attive nella promozione della conoscenza della sua patria d’origine, ancora in bilico tra la nostalgia di ciò che era ‘Ex-Jugoslavia e l’incertezza ciò che la Bosnia-Erzegovina diventerà, a fronte di un presente in cui niente è chiaro, se non la pericolosa divisione istituzionale del paese.copertina libro

“Al di là del caos” è il primo libro che Elvira ha scritto e che presenterà per “Il Fiume” sabato 17 marzo, a  Ferrara (ore 17.00 in libreria Feltrinelli) e a Stienta nella Sala Consigliare (ore 20.45), per Infinito edizioni ha pubblicato un nuovo libro quest’anno ” E se Fuad avesse avuto la dinamite” .