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Si ha democrazia quando il popolo può controllare l’operato del governo: accetterò il controllo del popolo, ho bisogno dell’energia del popolo, voglio ascoltare la voce del popolo.
Aung San Suu Kyi, 14 novembre

1 marzo 2012 – TAV in Val di Susa una “partita persa” contro un “partito preso”

 

Tema importante per il nostro Paese la decisione di realizzare l’Alta Velocità tra Torino e Lyone, un’opera che dovrebbe garantire un collegamento preferenziale e veloce verso il nord-ovest, per i fautori, non determinante per i collegamenti e per la crescita economica, oltre che troppo costosa e soggetta ad appetiti mafiosi, per i detrattori.

Come per le centrali nucleari, per la riconversione a carbone della centrale di Polesine Camerini, i temi sono molto importanti e non è facile formulare un si o un no decisi, quando le ragioni stanno da entrambe le parti.

Il rischio che, nel momento difficile che stiamo vivendo per l’economia occidentale, queste ragioni si trasformino in slogan e portino a contrapposizioni e scontri anche tragici, è palpabile e va scongiurato, ma la sensazione è che, comunque vada,  non sarà un successo.

Bene ha descritto la situazione Concita de Gregorio nell’articolo di ieri su Repubblica che riportiamo in parte:

Si può morire per una partita persa, sì. Il partito preso contro la partita persa. È una storia antichissima. Ascoltare Brecht, pensare a noi. Ieri sera a poche centinaia di chilometri dalla Val di Susa è andata in scena a Milano la “Santa Giovanna dei Macelli” diretta da Ronconi.
Coi No-Tav nelle valli a darsi il turno sulla trincea di un pericolosissimo confronto con l’ esercito in forze, un confronto dove faccia a faccia, casco a passamontagna, occhi negli occhi basta niente – una frase, un gesto, un insulto, una stupida provocazione – a far partire le mani, e le armi, e la tragedia, ecco proprio nelle stesse ore sul palco del Piccolo Teatro risuonavano le medesime parole che leggiamo sui giornali ogni giorno. E cosa fare, adesso? Quale soluzione se fin dal principio il dialogo fra i due opposti schieramenti – la popolazione, l’ istituzione – è stato negato? Un testo scritto nel 1929, i giornali di oggi. Giovanna Dark, la versione novecentesca di Giovanna d’ Arco, muore per una
causa persa, impossibile da far valere contro le ragioni del “partito preso“.”

“Le ragioni del popolo e quelle di chi governa l’ economia. La salute contro gli interessi, la tutela dell’ ambiente contro le ragioni di Stato, degli Stati. La promessa di un lavoro in cambio della resa. Ci vuole un martire, sempre, per l’ epica. Un uomo, una donna simbolo. La Val di Susa ora ha eletto il suo, caduto da un traliccio dove era salito a gridare. A teatro Giovanna Dark, una magnifica Maria Paiato, non muore sul rogo ma di stenti. È l’ eroina degli ultimi, degli operai della fabbrica di carne che chiude – c’ è la crisi, siamo nel ‘ 29 – e chiude perché nessuno ha più i soldi per comprare quella carne. Ma se gli operai non avranno lavoro né dunque denaro chi mai potrà più comprare le merci? L’ operaio di Ronconi, il volto ottocentesco di Gianluigi Fogacci replicato in centinaia di cloni sugli schermi, le sue parole sui diritti, sulla giustizia, sulla libertà degli uomini che non hanno voce in cosa sono diverse da quelle di chi combatte oggi contro il partito preso delle grandi opere, sempre dispensatrici di denari a chi ne dispone già in quantità, sempre terreno fertile di corruzione, di delitto, di ingiustizia? E la vedova dell’ uomo caduto nel tritacarne e diventato egli stesso carne in scatola, la signora Luckerniddle (Francesca Ciocchetti, in scena) può forse essere rimproverata di rinunciare a denunciare la fabbrica in cambio di venti pasti caldi? A noi che non abbiamo risposte ma solo domande, oggi, su come uscire dalla polveriera disinnescando le micce, Brecht e Ronconi dicono questo: tutti sono un poco corrotti o corruttibili, tutti hanno le loro ragioni, tutti si tengono. Dei giusti, degli eroi si narra l’ ingenuità, e sempre infine la cattiva sorte. Dei padroni l’ impossibilità – l’ incapacità – di rompere un sistema del quale non sono infine che ingranaggi. Il padrone della fabbrica di carne, il signor Mauler, con la voce e coi potenti gesti di Paolo Pierobon, sul finire dello spettacolo dice così: «È solo con misure estreme che potranno parere dure perché colpiamo qualcuno, o anche molti, a farla breve i più o quasi tutti, solo così potrà salvarsi questo sistema di libero scambio che esiste qui tra noi». Ci si può salvare solo con misure estreme, una frase attuale. Questo “sistema di libero scambio” che esiste qui tra noi, però, non è un buon sistema. È un sistema che ignora le ragioni di milioni di uomini e ne provoca la miseria, la disperazione. «Non c’ è qualcuno che organizzi qualcosa?», chiede Giovanna Dark? «Sì, i comunisti», le risponde l’ operaio. «Ma non è quella gente che inciti a commettere delitti?». I disoccupati della fabbrica, stesi a terra senza forze, non possono neanche sorridere di scherno. Chi commette il delitto, in questa storia? Contro chi? «Bisogna fare attenzione, perché potrebbe anche esplodere una rivoluzione», recitano gli attori di Ronconi. Basta che Giovanna muoia perché l’ esercito delle partite perse si ribelli a quello del partito preso, e per le lacrime sarà troppo tardi. Basta una scintilla sotto le ceneri a incendiare il cantiere. Mai parole, in platea, suscitarono tanta impressione.”

Articolo tratto da Repubblica, 1 marzo 2012

14 dicembre 2011 – Con la sola forza del pensiero

Nell’Italia impegnata a salvare, non solo il proprio prestigio, ma soprattutto la propria economia, le notizie che si leggono in parallelo alle comunicazioni del Governo sulla manovra, sono del tenore che segue:  da Il Corriere della sera

Agguato razzista nei mercati di Firenze
Un killer spara a 2 senegalesi e si uccide  Ha aperto il fuoco al mercato di piazza Dalmazia. Poi nel pomeriggio ha sparato al mercato di San Lorenzo e si è ucciso. Si tratta di un militante di estrema destra

Caccia al rom per presunto stupro
Poi 16enne ammette: «Nessuna violenza»   Attaccato campo nomadi: appiccato un incendio, lancio di bombe-carta, scontri tra manifestanti e forze dell’ordine

Ne riportiamo solo due delle principali, ma le cronache locali sono ricche di ulteriori spunti quali ad esempio la notizia dell’apertura a Brugherio in Lombardia di un bar accessibile solo alle persone del nord. Continui segni di come una situazione economica di grande difficoltà generale stia generando i germi della paura, che non potendo colpire i reali colpevoli, perché forse colpevoli lo siamo tutti, si scaglia contro i bersagli deboli.

Dall'”età dell’oro”, degli anni ’80, all'”età dell’ansia”, in quel divenire ciclico che mai costituisce insegnamento per l’uomo.  Il nostro unico strumento di intervento è la forza del pensiero e della conoscenza.

Di seguito elenchiamo il programma di massima che “Il Fiume” sta approntando per il prossimo gennaio.

– Mart 17 gennaio    FICAROLO   Scuola media “Anna Frank”  incontro con Maria Pia Bernicchia, scrittrice del libro   ” I 20 bambini di Bullenhuserdamm”, ospite Franco Levi.

– Ven 20 gennaio  ROVIGO      Scuola Media “Bonifacio”    incontro con il Rabbino Capo di Ferrara, Rav  Luciano  Caro per una conversazione sulla Shoah.

– Ven 20 gennaio  POLESELLA   Sala  “Agostiniani”  incontro con Francesca Panozzo per la comunicazione  ” Dalle leggi razziali…alla Shoah” 

– Sab 21 gennaio  COSTA di ROVIGO   Biblioteca  “Manfred Bernard Buchaster” incontro con Daniela Padoan, scrittrice (“Come una rana d’inverno”) e autrice televisiva.

– Lun 23 gennaio  ROVIGO   Casa Circondariale   incontro con Daniela Padoan sul tema “SHOAH e  MEMORIA” 

– Mer 25 gennaio    COSTA di ROVIGO   Istituto Comprensivo  incontro con Nella Roveri “Villa Emma. I ragazzi ebrei salvati”

– Sab 28 gennaio  CASTELMASSA    ITAS  “Munari”  incontro con Ilaria Pavan, storica della Scuola Normale di Pisa, per una comunicazione sul tema, ” Le responsabilità italiane nella Shoah”

 – Lun 30 gennaio   FERRARA     Liceo Scientifico  “Roiti”   incontro con Maria Pia Bernicchia, sul tema, ” Le donne nella Shoah”

– Mart 31 gennaio  ROVIGO    Archivio di stato    incontro con Klauss  Voigt, storico tedesco autore del libro “L’internamento libero”  e Carlo Spartaco Capogreco, storico italiano autore del testo ” I campi del Duce”

– Merc 1 febbraio    FERRARA     Liceo Classico ” L. Ariosto ” incontro con Klauss Voigt

– Mer  7  marzo   ROVIGO     Scuola Media “Bonifacio”  incontro con   Maria Chiara Fabian   e Luciano Bombarda    ” Ricerca su internamento libero  in Polesine”

29 novembre 1992 … Eli Wiesel viene portato a Sarajevo assediata

Riprendiamo integralmente dal bellissimo sito dell’ Osservatorio dei Balcani e del Caucaso http://www.balcanicaucaso.org/ l’ articolo scritto oggi da Azra Nuhefendic sulla visita, fatta nel novembre del ’92, del premio Nobel Eli Wiesel, sopravvissuto ad Auschwitz nella Sarajevo assediata.

eli wiesel

Mi trovavo tra i prescelti, non per eccellenza ma per puro caso. Nel novembre 1992 il premio Nobel per la Pace, lo scrittore americano Elie Wiesel, fu invitato a visitare la Sarajevo assediata, per “accertare di persona le giuste ragioni dei serbi nella guerra in Bosnia”, scriveva nell’invito lo scrittore serbo Dobrica Ćosić.

Wiesel fu accompagnato da un piccolo gruppo di giornalisti selezionati, delle testate più importanti del mondo: la CNN, la BBC, il New York Times, e di collaboratori stretti. In onore dell’illustre ospite fu organizzato un ricevimento nell’ambasciata americana a Belgrado.

Una borsa di cibo
In quel momento la guerra stava spaccando la Bosnia da sei mesi. Non mi importava di fare vita sociale, accettavo gli inviti solo se potevo approfittarne: conoscere qualcuno per mandare aiuto ai miei a Sarajevo. Per questo giravo tra gli ospiti con uno scopo preciso. Uno mi chiese se ero interessata ad andare a Sarajevo. Speravo di poter mandare un po’ di soldi, o magari un chilo di cibo, ed ecco mi offrono di andare nella città assediata. Certo, risposi all’istante. Quello mi presentò uno degli organizzatori locali – uno del ministero per le Informazioni – che mi disse quando e da dove si partiva, ed io andai a casa agitata e confusa, cambiando i piani alla velocità di 200 chilometri al secondo.

La sera prima della partenza per Sarajevo, ero a cena, dall’amica Nada Obradović. La padrona godeva di molta stima e la sua casa era l’unico posto dove venivano i diplomatici stranieri, quelli ancora rimasti a Belgrado, perché la maggior parte degli ambasciatori aveva lasciato la Serbia in segno di protesta contro la guerra che stava conducendo.

Ero seduta accanto al diplomatico americano. Per vanità gli dissi che l’indomani alle nove di mattina sarei andata a Sarajevo. “Credo che a quell’ora non andrai da nessuna parte”, mi disse. Imbarazzata, rimasi zitta pensando freneticamente che cosa volesse dire.

Il giorno seguente mi recai al punto di ritrovo, davanti all’Hotel Intercontinental, prima delle sei di mattina. Aspettavo. Verso le sette il gruppo per Sarajevo era al completo. L’organizzatore locale fu sorpreso di vedermi, ma non disse niente. Neanch’io. Con un pulmino ci trasportarono all’aeroporto militare di Batajnica, e da là, dopo molti controlli, ci imbarcammo in un piccolo aereo militare. Non c’erano sedili, eravamo seduti su delle strette panchine di legno fissate su ambedue le pareti del velivolo.

Prima del decollo tremavo come se avessi la febbre, non riuscivo a controllare i denti che battevano, né le ginocchia che tremavano. Avevo paura che all’ultimo momento mi impedissero di andarci, oppure che togliessero la borsa con il cibo che portavo ai miei. Nel patetico tentativo di nasconderla l’avevo messa sotto la panchina.   Durante il volo stavo seduta di fronte a Wiesel. Lo guardavo, volevo capire dal suo sguardo cosa pensasse. Ma era impenetrabile. Statico, con le mani appoggiate sulle ginocchia, guardava dritto, ma avrei giurato che non vedeva niente e nessuno. Sul suo viso nessuna espressione, neanche un muscolo si muoveva. Sembrava impietrito.      Poi, guardavo gli altri del gruppo. All’epoca i sarajevesi soffrivano già la fame, ma nel gruppo dei prescelti nessuno portava neanche un pezzo di cioccolata da dare, magari, a un bambino che avremmo potuto incontrare per caso.

L’aeroporto sulla luna
L’aeroporto di Sarajevo, che conoscevo come casa mia, sembrava una trincea. Così com’era poteva essere in qualsiasi parte della terra, persino sulla luna. I sacchi pieni di sabbia delimitavano lo spazio e l’orizzonte, un frenetico via-vai di militari che impartivano ordini in lingue straniere, e la fretta, la fretta. Da lontano si udivano gli spari delle armi leggere. Quel giorno, per garantire la sicurezza dell’ospite, non bombardavano la città.

Elie Wiesel e un paio dei più importanti personaggi della delegazione furono fatti salire su un carro blindato, per raggiungere il centro di Sarajevo. A noi altri dissero che non potevano trasportarci nel centro della città perché i carri blindati erano impegnati altrove, perciò dovevamo rimanere all’aeroporto. All’ultimo momento riuscii a dare la borsa con il cibo a uno che andava in centro, pregandolo di lasciarla da un’amica nel Palazzo del Governo, dove Wiesel doveva incontrare i politici bosniaci.

Ero arrivata a Sarajevo, ma non potevo muovermi dall’aeroporto! Era troppo. Piangevo a dirotto. Senza controllo né vergogna, correvo dietro a chiunque passasse, tiravo persone sconosciute per le maniche, le pregavo di fare qualcosa, balbettavo tipo “che devo”, che “è importante”, “la mia famiglia”, insomma cose insensate. Niente. Alla fine ho dovuto accettare che non potevo fare niente, tranne telefonare alle mie sorelle per dire che avevo mandato la borsa con il cibo.

Dietro un angolo trovai il telefono appeso al muro. Là c’era un giovane americano che mi chiese se avevo visto la sua collega, una giornalista dell’agenzia stampa Associated Press (AP), che doveva venire a Sarajevo con noi. Lui era un foto reporter (dopo ho saputo che si chiamava Morten Hvral), era arrivato tardi, cercava di rintracciare la collega. “Sei con l’auto, mi daresti un passaggio?”, gli chiesi. “Ok, ho un posto”.

La sua macchina, un piccolo pick up, sembrava un giocattolo. Su ambedue i fianchi c’era la scritta PRESS fatta a mano con vernice bianca. Un altro americano che stava lì vicino chiese anche lui un passaggio. “Ma io l’ho chiesto per prima”, “No, c’ero prima io”, insisteva l’americano. Il reporter aveva fretta, non voleva fare il giudice, e ci disse di tirare a sorte con una moneta. Vinsi io, ma l’americano occupò comunque il posto in macchina, e non voleva muoversi. Il fotografo mi disse “mi dispiace”, e quei due sparirono. Mi accasciai per terra scivolando con le spalle lungo il muro, annegando nelle lacrime, nel dolore, nella disperazione.

Dopo non so quanto tempo, un soldato francese ci disse che c’era la disponibilità di un altro carro blindato e che ci avrebbero portato nel centro della città.

Fuori dal mondo
Quel giorno, il 29 novembre 1992, a Sarajevo, me lo ricordo come se avessi guardato me stessa da uno spazio impreciso, immateriale, al di là, fuori dal mondo fisico. Una parte di me, eterea, come uno spettatore indifferente, seguiva attentamente l’altra parte, fisica, che si muoveva, parlava, piangeva. Sarajevo sembrava un posto riemerso dalla storia, le vie, i palazzi, le rare persone per le strade, tutto era color cenere, parevano le immagini di vecchi film in bianco e nero, quei film muti, dove la velocità è eccessiva o troppo lenta.

Davanti al Palazzo del Governo, ancora prima che si fermasse il carro blindato, vidi mia sorella Esa. Sola, sul marciapiede, era una figura umana misera, in mezzo alle rovine delle case distrutte. Sgomitando tra quelli seduti di fronte a me, uscii dal carro blindato per prima. Abbracciai mia sorella e restammo unite in un unico pianto, dolore e tremore.

Per vedere l’altra sorella, Jasna, dovevamo spostarci verso l’ospedale militare, non lontano da dove eravamo. Per strada incontrai un compagno delle elementari, Zoran Djurica. Mi chiese perché piangevo, e io gli riposi scrollando le spalle. La risposta mi sembrava ovvia.

In quel cammino mi seguivano alcuni membri della delegazione. Un giornalista della RAI faceva le riprese, l’altro, un americano, faceva le foto. Di questo non ho nessun ricordo. Solo dopo anni, quando ho visto il filmato e le foto arrivatemi da New York, ho capito che quelli erano con me.

La mia Jasna era venuta accompagnata dal suo vicino, Slobodan Krajisnik, passando per le vie che erano protette dagli spari. Suo marito, Ilijaš, era rimasto a casa. Nel primo mese dell’assedio era stato bersagliato dai cecchini mentre attraversava il ponte. Si è salvato per miracolo. Poi non è più uscito di casa. Jasna piangeva e ripeteva: “Ho fame, ho fame”. Tutte e tre, abbracciate, piangevamo. Mi chiedevo, terrificata, se le avrei mai più riviste. Quel giorno non riuscii a vedere i miei genitori. Stavano nell’altra parte della città, occupata dai serbi.

Ben presto dovetti salutare le mie sorelle per riunirmi al resto della delegazione. La visita di Elie Wiesel a Sarajevo durò un paio di ore. Prima aveva incontrato l’ex presidente bosniaco Alija Izetbegović e dopo, in un sobborgo di Sarajevo, a Lukavica, Wiesel aveva parlato con il capo dei serbi bosniaci, Radovan Karadžić.

Chi sta bombardando?
Nel primo pomeriggio la delegazione era all’aeroporto per tornare. A Belgrado ci aspettavano centinaia di giornalisti che volevano sentire da Elie Wiesel in persona come stavano le cose. Lo ascoltavo con i nervi tirati al massimo. Aspettavo che descrivesse la situazione che avevamo visto, che dicesse chi sta bombardando, chi è che tiene la città sotto assedio. All’epoca i politici e i media serbi sostenevano che “non si sa chi bombarda Sarajevo”, né “chi sono gli assedianti”. Niente. Elie Wiesel pronunciò alcune frasi neutrali e la conferenza stampa finì presto.
Tornai a casa snervata, sconfitta. Mi tolsi i vestiti e mi misi a letto per morire. Troppe emozioni si erano trasformate in malore fisico. Rimasi a letto una settimana con la febbre alta.

Quattro mesi dopo, nel marzo 1993, Elie Wiesel pubblicò contemporaneamente sul “New York Times” e sul quotidiano francese “Libération”, una lettera nella quale raccontava nei dettagli di come i serbi lo avevano ingannato, che l’avevano invitato in Jugoslavia, gli avevano mostrato un campo di concentramento e poi si erano vendicati con gli internati ai quali Wiesel aveva parlato. Raccontava di aver creduto al comandante dei campi di concentramento di Manjača e di Banja Luka, perché a Belgrado glielo avevano descritto come una persona severa ma giusta, e di come credeva alle parole dell’ex presidente serbo Slobodan Milošević e di Radovan Karadžić.

Fate qualcosa
Poi nell’agosto 1993, alla cerimonia d’inaugurazione del museo dell’Olocausto a Washington, Wiesel si rivolse all’ex presidente statunitense Bill Clinton: «Signor Presidente, c’è una cosa su cui non posso tacere. Sono stato nella ex Jugoslavia e non riesco a dormire per quello che ho visto… Le chiedo di fare qualcosa per fermare le uccisioni… Là (in Bosnia) ammazzano la gente, uccidono i bambini».

Nell’occasione, oltre al presidente americano, c’erano altri 60 capi di Stato. Nessuno intervenne per fermare i massacri e per prevenire ciò che sarebbe accaduto a Srebrenica da lì a due anni.                                              Azra Nuhefendic

 

AZRA NUHEFENDIC E DUNJA NANUT SULL’EX JUGOSLAVIA

       Nanut, Nuhefendic e Bombarda
            Dunja Nanut, Azra Nuhefendic e Luciano Bombarda a Stienta in Sala Consigliare

L’argomento ex-Jugoslavia è di quelli che non si finisce mai di approfondire, sia per la vicinanza ad un occidente che si sentiva lontano dal pericolo della guerra, sia per la sensazione che non sia finito tutto e, sotto la cenere, si mantengano ancora pericolose braci pronte ad infiammare l’area.

I due incontri, del pomeriggio a Ferrara, e della sera a Stienta, con Azra Nuhefendic e Dunja Nanut hanno perciò suscitato interesse e partecipazione, oltre a numerosi interrogativi, da parte di un pubblico coinvolto e preparato.

Se in Libreria Feltrinelli si è insistito sulla leggenda che vede i popoli slavi portatori di aggressività e violenza, miste a spirito di conquista e sopraffazione, nell’incontro di Stienta si è sviscerato maggiormente l’aspetto politico, concentrando le numerose domande sul ruolo del regime comunista e e della figura di Tito come collante di diversità destinate ad accentuarsi alla sua morte.

A tutte le domande hanno risposto a turno, Azra come bosniaca, giornalista ed ex-commentatrice per la tv jugoslava, e quindi persona molto informata dei fatti, Dunja come italiana di origine slovena, insegnante e storica abituata a percorrere la ex-Jugoslavia in lungo e in largo.

Ne è emerso un quadro composito in cui, più che alla “jugo-nostalgia”, si è fatto ricorso all’analisi della vita in un paese che sperimentò la ricerca dell’equità sociale accanto alla volontà di sviluppo industriale, libero dal fardello della sottomissione a Mosca, ma forse da questo penalizzato.     
La cultura e l’istruzione come valori fondanti sono stati indicati come aspetti su cui la barbarie della guerra si è accanita proprio per fiaccare ogni resistenza, ma anche come strumenti per la giustificazione di divisioni più costruite che reali.                    
Per Azra Nuhefendic i diversi gruppi etnici vivevano in armonia reale (e ancor oggi riscontrabile per chi viaggia in questi territori) che solo poteri auto referenziali hanno diviso, sfruttando gli elementi negativi che si annidano comunque nei gruppi umani.

Sarebbe come se gruppi separatisti presenti in Italia e in altri paesi, potessero contare su agganci forti con l’esercito, come accadde per i serbi nell’ex-Jugoslavia, ed ecco che la volontà della minoranza sarebbe imposta con la guerra alla maggioranza.

Se a questo si aggiungono interessi internazionali e un’azione svolta a smantellare ogni possibile alternativa al “mercato” come supremo controllo dell’ordine-disordine mondiale, ecco che anche nel cuore dell’Europa la guerra fratricida diventa possibile.

Come sempre chi partecipa agli incontri di questo tipo può chiarirsi le idee sulle dinamiche che governano il mondo in cui viviamo, se questo poi aiuta ad agire e a contrastare certe degenerazioni, non lo sappiamo, ma ce lo auguriamo.

  Le due relatrici in Libreria Feltrinelli a Ferrara
libreria feltrinelli

19 novembre 2011 – Le stelle che stanno giù – Cronache dalla Jugoslavia e dalla Bosnia Erzegovina

libro azraLa religione in Jugoslavia non era proibita, e non era obbligatorio essere comunisti; da quelli che erano membri del partito, però, si esigeva che fossero atei.   Andjelka non nascondeva mai la sua religiosità, e ne pagava le conseguenze. Il suo talento giornalistico era evidente, ma nella Jugoslavia comunista, una religiosa non poteva fare la carriera che meritava.

….. Negli anni novanta la Jugoslavia spariva, cambiavano i confini del paese, si modificava la società, mutavano valori e ideali. Il comunismo e l’ateismo erano diventati fuori moda e, quasi quasi, fuorilegge. All’improvviso quelli che fino al giorno prima erano comunisti si dichiaravano “religiosi da sempre”.

La mia amica Andjelka rimase la stessa, il suo rapporto con la religione non era cambiato. Lo riteneva, da sempre, una cosa privata. Niente da pubblicizzare, da dimostrare o di cui vantarsi. Tra i camaleonti della nuova società, la mia amica Andjelka rimaneva ancora una volta in disparte.

 

Una prosa come quella di Azra Nuhefendic è di quelle che con calma e concentrazione passa una lama affilata sulle vicende di cui scrive, come il taglio netto e perfetto che mette in luce le parti migliori del pezzo di carne, di quelle che ti fanno dire “mi piacerebbe scrivere così”.   Il buon giornalismo è facile da individuare ma facilmente viene messo da parte in nome dell’opportunismo o delle convenienze del momento. 

L’opportunità di ascoltare Azra Nuhefendic, giornalista di origine bosniaca, nata a Sarajevo, la Gerusalemme d’Europa, è di quelle da non perdere alla libreria Feltrinelli, di Ferrara, sabato 19 novembre 2011 alle ore 17.30, o in aggiunta a Stienta, presso la sala del Consiglio, in Municipio, alle ore 21.00.