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Si ha democrazia quando il popolo può controllare l’operato del governo: accetterò il controllo del popolo, ho bisogno dell’energia del popolo, voglio ascoltare la voce del popolo.
Aung San Suu Kyi, 14 novembre

20-27 AGOSTO 2017- Seminario per insegnanti italiani – Yad Vashem Gerusalemme

Pianta della Palestina del 1700

Gerusalemme, Al-Quds, Jerushalaim, chiamatela come volete ma alla fine si tratta sempre dell’ombelico del Mondo, o meglio di tre/quarti del mondo se escludiamo la grande area dell’Oriente buddista o della Cina “comunista”.

Dal 18 al 27 agosto sarò a Gerusalemme per un percorso di approfondimento della didattica della Shoah all’interno dell’istituto Yad Vashem, più noto come museo della Shoah dello Stato di Israele. Sarà anche l’occasione per entrare nello spirito della città che è forse tra le aree più contese nel mondo e che si contrappone in Israele alla laica Tel Aviv, alla medievale Akko, alla sionista Haifa, alla religiosa Hebron, alla mistica Safed.

Una città dalla storia millenaria ma per capire cosa è oggi è, forse, più importante conoscere le vicende dell’ultimo secolo. Interessante è scoprire come la dissoluzione dell’Impero Ottomano, l’intervento dell’Inghilterra, la stratificazione delle comunità religiose, la popolazione araba ed ebraica coesistenti da epoche immemori, siano state sopraffatte dalla forza della disperazione di un popolo salvatosi dalla distruzione progettata dalla Germania Nazista ed appoggiata dal resto dell’Europa.

Delle vicende drammatiche del secondo Novecento, ne hanno fatto le spese i Palestinesi, ossia la popolazione araba, mai costituita in nazione, ma stritolata tra i grandi movimenti di masse e politici nei quali gli arabi palestinesi non sono riusciti ad inserirsi se non attraverso una serie di “no” che hanno portato a guerre e sofferenze senza fine.

Il tempo di solito guarisce le ferite ma, in questo caso, il tempo non fa che rendere più difficile progredire verso la pace, come quando la calcificazione di una frattura rende difficile muovere un’ articolazione.

Il viaggio ed il Seminario per insegnanti che lo Yad Vashem organizza per gruppi di insegnanti di tutto il mondo ha lo scopo però di approfondire il tema della Shoah e di come si approfondisce e insegna. Perché approfondire un tema che sembra ormai noto e conosciuto?

L’importanza di questo studio è oggi sempre più evidente. Capire che la Shoah ha avuto una specificità ed una unicità fondamentale è cosa che abbiamo detto e si dice da molte parti. Insegnarlo ai non addetti ai lavori deve rendere ogni fatto storico contemporaneo importante per quello che è e per la dinamica che lo ha prodotto, altrimenti non riusciremo a trovare i metodi per combattere i conflitti del mondo.

“Combattere i conflitti”, quasi una figura retorica di cui non ricordo il nome. E’ un altro modo di dire “se vuoi la pace prepara la guerra”… non crediamo che si debba usare la guerra per avere la pace e lo dimostrano tanti conflitti contemporanei nati da azioni che in tempo di pace volevano sovvertire l’ordine di alcune aree del mondo per pori scopi di interesse o egemonia.

Non crediamo che Israele sia nato dalla Shoah, come hanno ribadito storici molto importanti, e non deve essere questa il parametro di giudizio della politica dello stato di Israele verso lo stato bi-cefalo della Palestina. Gli israeliani non stanno facendo ai palestinesi quello che i nazisti hanno fatto agli ebrei, questo collegamento  stabilito da più parti  va demolito e la politica israeliana e palestinese va ricondotta a quello che è, alle dinamiche politico amministrative nate a seguito di guerre ripetute, azioni di rivolta difficilmente condivisibili (il terrorismo degli anni ’70) , intifade più o meno disastrose per le conseguenze di ritorsione e ulteriore perdita di autonomia e credibilità.

Non se ne uscirà facilmente e soprattutto perché il resto del mondo è invischiato in altri problemi più grossi, ma dare alle cose il giusto nome e la collocazione più giusta è quello che dovremmo fare tutti.

21 luglio 2017- Tra Sabaudia, Littoria e Mussolinia si snoda la nostalgia fascista

Tempi duri per l’antifascismo.

Il nostro paese sta vivendo una costante e progressiva escalation dell’idea fascista. Si è partiti da un braccio alzato in un campo sportivo a festeggiare un gol, si è passati ai raduni di “Casa Pound” contro i migranti, per poi assistere in parlamento ad offese antisemite contro un deputato Emanuele Fiano figlio di un deportato ad Auschwitz. Non parliamo della melma maleodorante vomitata dai social network, ma di fatti reali che accadono tutti i giorni e mescolano la nostalgia del fascismo alla rabbia impotente verso dinamiche epocali della portata della “crisi del ’29”.  Crisi economica, globalizzazione, destabilizzazione di alcuni governi africani dittatoriali ma funzionali alla repressione in loco del malcontento per la povertà, sono il frullato che ha portato a una migrazione epocale.

Difficile risolvere in poco tempo problemi che richiederebbero maggior forza e coesione dell’Europa divisa tra paesi che ancora in Africa hanno il loro supermercato a prezzi stracciati e paesi che fanno da pattumiera dei residui del supermercato.

L’accoglienza ineludibile dei barconi pieni di migranti, profughi, rifugiati, chiamiamoli come vogliamo, si scontra con le reali difficoltà dell’ammasso di uomini in luoghi inadatti, privi di servizi adeguati, senza organizzazioni che diano loro uno scopo nella giornata.   L’emigrazione femminile dall’est è utile e necessaria è ha trovato i suoi canali, generando quel reddito  che sembra essere fondamentale per il nostro welfare.  Questa nuova e massiccia emigrazione per lo più maschile che non viene incanalata in nessun filone produttivo e rimane imbottigliata in Italia perché il resto dell’Europa non se ne vuol far carico, è la miccia che può scardinare la nostra democrazia.

Sabaudia città di fondazione fascista

Molte voci si levano a dire che l’Italia non ha fatto i conti col proprio passato fascista, ma in effetti non solo di passato si tratta. L’intima essenza dell’italiano è fascista, pronta a bacchettare gli altri ma indulgente con sé stessa, vogliosa di ordine imposto anche con la forza, ma incapace di educare i propri figli al rispetto degli altri.

Tuttavia non è contro l’essenza dell’italiano medio che si deve lottare, si deve contrastare l’apologia del fascismo e l’uso e abuso dei suoi simboli.   A quanto pare la maggioranza degli italiani che al referendum ha votato contro la modifica della Costituzione, quando è ora di applicarla non sa come fare.  Pazienza le forze di destra (strenui garanti della “Costituzione così com’è”, giusto per dar contro al Presidente del Consiglio un po’ trullallà), ma anche chi si propone come Movimento con “barra a dritta” non sa dire una parola forte contro la folla in piazza a Latina che inneggia al Duce e col braccio teso contesta l’intitolazione dei giardini pubblici a Falcone e Borsellino.  Orrore… Sembra che la mafia torni ad essere la maggiore alleata delle forze eversive che vogliono tenere lo Stato nel marasma per poter salire al potere e fare i propria affari indisturbati.

Il cartello voluto da Don Formenton, il parroco di un piccolo paese, dopo fatti di razzismo in molti paesi della provincia

Fatti emblematici gli sfregi ai busti e alle targhe in memoria dei magistrati che hanno combattuto la mafia, fatti gravi le spiagge con la simbologia fascista orgogliosamente in mostra, fatti gravissimi gli interventi assolutori del Vescovo locale (“sono goliardate” mons. Tessarollo), fatti inquietanti i tentativi di cambiar nome a Latina per tornare a Littoria o la polemica montata contro la presidente della Camera Boldrini accusata falsamente di voler abbattere le architetture razionaliste.   In mezzo ci stiamo noi che proviamo a raccontare ai ragazzi nelle scuole cosa è stato il fascismo, cosa vuol dire lotta alla mafia, qual è la differenza tra olocausto e crimini di guerra, tra shoah e foibe.   In mezzo ad un potere politico impotente e a un fascismo montante, ci siamo noi che abbiamo solo il potere della cultura e dell’esempio e siamo minoritari.

Facciamoci gli auguri

 

 

 

 

10 FEBBRAIO 2017- La storia intorno alle foibe

Il Giorno del ricordo, il 10 febbraio, è stato istituito al fine di “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.
Tra le commemorazioni, celebrazioni, santificazioni e reportage di pubbliche cerimonie,  il contributo più interessante lo dobbiamo al giornale Internazionale che ha interrogato diversi storici su alcuni aspetti del problema.

In cosa consiste la “più complessa vicenda”?

Il collettivo Nicoletta Bourbaki, gruppo di lavoro sul revisionismo storiografico, ha chiesto a sette storici di rispondere alla domanda.
Di seguito gli interventi dei vari autori che val la pena di leggere nel numero della rivista  Internazionale del 2 febbraio 2017.

Sul confine orientale, la storia trasformata in olocausto, di Federico Tenca Montini
Il prequel del Giorno del ricordo. La Venezia Giulia dalla prima alla seconda guerra mondiale, di Piero Purini
Persecuzioni, crimini fascisti e resistenze nei Balcani e nella Venezia Giulia, 1920-1945, di Anna Di Gianantonio, Carlo Spartaco Capogreco, Eric Gobetti, Nicoletta Bourbaki
Esodo e foibe. Separare ciò che appare unito, di Jože Pirjevec, Nicoletta Bourbaki, Sandi Volk
Il viaggio continua. Possibili percorsi di approfondimento, di Nicoletta Bourbaki

Più modestamente, come Associazione il Fiume, abbiamo invitato due  giovani storici,  Alessandro Cattunar per parlarci delle vicende del “confine orientale” e Irene Bolzon per relazionare sull’esodo dei giuliano-dalmati e istriani.

Alessandro Cattunar al Circolo Azzurro di Occhiobello

A Occhiobello (Ro) con Alessandro Cattunar è stato importante raccontare le vicende del confine orientale con tutto il contorno di complessità e violenza.
Il pubblico di un centro sociale molto attivo e ricco di attività culturali e ricreative per anziani, il Centro Azzurro, ha ascoltato con attenzione vicende che non erano certamente note.       L’età matura del pubblico a volte aiuta a collocare storicamente gli eventi rispetto a quando si parla ad una platea di ragazzi, ma non è scontato che  le persone, oltre all’esperienza,  abbiano approfondito e ampliato la conoscenza.
Nel nostro caso la storia di come gli abitanti delle terre contese del confine orientale hanno vissuto occupazioni plurime e di come si sia arrivati alle foibe, è stata narrata con serietà e obiettività,  contestualizzando le “memorie” che sono sempre personali e non condivisibili.
A Rosolina, la chiarezza di Alessandro Cattunar è stata molto apprezzata anche nella mattina di sabato 11 febbraio, nell’incontro portato alle scuole medie del paese per volontà dell’assessore Anna Frasson.
Come sopra accennato , far capire a dei ragazzi, che spesso arrivano di corsa a fare la seconda guerra mondiale, vicende così complesse e poco conosciute non è facile.
Il pregio di Alessandro Cattunar è stato la chiarezza e la capacità di adattare la sua relazione al pubblico che aveva davanti senza togliere profondità al discorso.


A Costa di Rovigo, in Biblioteca “M. Buchaster”, con Irene Bolzon1 abbiamo parlato di “foibe”,  ancora una volta e difronte ad un altro pubblico.     La giovane storica trevigiana, laureata a Udine con una tesi sul confine orientale basata su ricerche in archivi mai aperti fino ai nostri giorni, ha introdotto la sua relazione partendo da una circolare che l’assessore regionale del Veneto Elena Donazzan ha inviato a tutti i dirigenti scolastici. Nella circolare l’assessore incasella una serie di errori ed imprecisioni storiche nell’ansia di invitare le scuole a parlare ai ragazzi del tema che le sta a cuore.    A partire da queste imprecisioni Irene Bolzon, con grande  precisione, ha sciorinato una serie di dati, e date, che hanno messo in luce la successione degli eventi.

Irene Bolzon a Costa di Rovigo

Dalla periodizzazione delle foibe alla periodizzazione dell’esodo (avvenuto nell’arco di dieci anni e con motivazioni plurime) abbiamo capito che la complessità delle vicende del confine conteso tra vincitori e vinti, è niente al confronto di come gli esuli sono stati utilizzati dallo Stato Italiano per pesare ai tavoli delle trattative.  Complessità su complessità, che nulla toglie al dramma delle memorie di chi ha vissuto sulla propria pelle quelle vicende,  ma un conto sono le esperienze e le memorie, un conto le dinamiche storiche specie se cambiate molte volte  nel dopoguerra (dagli accordi tra America, Inghilterra e Russia con la Francia a reclamare il suo ruolo, fino allo stacco della Jugoslavia di Tito con il PCUS e relative conseguenze).  Non a caso ci vorranno dieci anni per trattare sulla linea del confine e poi tracciarla.    Una storia a volte  ingarbugliata, che si può riassumere e “tagliare con l’accetta” solo guardandola da lontano mentre noi siamo abituati a usare il microscopio!      In questi giorni alla luce delle rivendicazioni fatte da alcuni politici nelle interviste televisive viviamo una sorta di straniamento.  Assistiamo a comizi di persone che tendono a riscrivere la storia operando una sorta di “rewind” che ne cancella parti molto importanti e decisive.    A noi comuni mortali se, da un lato, sembra drammatico aver perso l’Istria e la Dalmazia, dall’altro ci sembra invece chiaro che avremmo potuto perdere anche Trieste se tra Alleati e Jugoslavi non si fosse dato un peso, seppur minimo, all’Italia Resistente che aveva partecipato all’ultima fase della seconda guerra mondiale.    Con buona pace dei revisionismi storici.

1 Irene Bolzon è stata nominata direttrice dell’Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea della Marca Trevigiana

10 giugno 2016 – Wlodek Goldkorn e il suo “Bambino nella neve” a Ferrara e Stienta

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Dopo un inverno trascorso come Associazione il Fiume a presentare il libro che ha condensato la ricerca di Luciano Bombarda sui profughi dell’Europa degli anni ’40, abbiamo ripreso ad invitare ospiti che abbiano qualcosa da dire in un mondo in cui tra libri, giornali, web, molti scrivono, forse troppi e pochi leggono.

A trovarci a Ferrara e Stienta è venuto stavolta lo scrittore Wlodek Goldkorn.    Per chi non lo conoscesse è  “un nomade”, nato in Polonia da genitori salvatisi dallo sterminio perchè fuggiti in Russia prima del ’39, scappato con la famiglia nel ’68 dopo che la Polonia si era schierata contro Israele e l’imperialismo mondiale, ramingo per qualche anno tra Israele e Germania fino alla scelta di stabilirsi in Toscana.

Con lui nel presentare il libro “Il bambino nella neve” ci siamo ritrovati a parlare di dignità, di vergogna, di profughi e del futuro dell’Europa.          Chi meglio di un giornalista internazionale dalla vita così ricca di esperienza e in contatto con le maggiori personalità politiche degli ultimi 60 anni poteva parlare di tanti temi con autorevolezza e cognizione dei fatti?

Nei due appuntamenti, il primo alla libreria Feltrinelli di Ferrara, condotto dal Marco Contini, giornalista di Repubblica, e il secondo a Stienta, la conversazione ha toccato molti dei temi della narrazione. Il libro si divide tra il ricordo dell’adolescenza in una Polonia vuota del “mondo di ieri” quello dell’ebraismo orientale da cui tutti i sopravvissuti provenivano, e un viaggio terribile nei campi dello sterminio di cui, se escludiamo Auschwitz, poco conosce la maggioranza delle persone .

Difficile condensare in poche righe la ricchezza della conversazione che Wlodek Goldkorn ha tenuto con grande passione con Marco e con i numerosi presenti in un giorno in cui in sottofondo aleggiava la notizia della diffusione nelle edicole del “Mein Kampf” di Hitler.

Pur non volendo scrivere un libro sulla Shoah l’esperienza della distruzione di un popolo che semplicemente “esisteva”, è fondamentale nell’architettura del testo.    A Goldkorn è, però, servita per fare un passo in più rispetto alla spettacolarizzazione ed estetizzazione della Shoah cui spesso si assiste.

Fondamentale è il concetto della “memoria” che non deve servire a condensare nel distico “mai più” un successivo disimpegno per tutto ciò che non riguarda ebrei, rom, omosessuali o testimoni di Geova.

Godcorn con Chiara Fabian a Stienta

La “memoria” è nel suo caso esercizio di ricordo, omaggio ai familiari uccisi, ricordo di un grande vuoto col quale si deve imparare a convivere, ma anche facoltà politica di intervento su quanto oggi deve suscitare lo sdegno che negli anni del Nazismo non si alzò con forza a denunciare nè le aberrazioni linguistiche nè poi quelle materiali.

“Non mi sento vittima” sostiene Goldkorn, che non chiede giustificazioni in quanto ebreo per il fatto che ne sono stati uccisi sei milioni.

Ciascuno è responsabile delle proprie azioni e come scrive nel libro “io penso che essere stati vittima o carnefice non cambia niente. Conta solo la capacità o l’incapacità di mettersi nei panni altrui; non dico di amare l’altro, compito troppo difficile, quasi impossibile, ma di pensare cosa farei io, come mi sentirei io, quali paure avrei provato io, se fossi nella situazione dell’altro.”

La memoria come mezzo di educazione all’agire nel presente e quindi dai profughi degli anni ’40 ai profughi di oggi non cambia molto e la storia chiude il cerchio.

Una lezione di comportamento che non siamo obbligati ad imparare, ma “dimenticare senza avere imparato” è da idioti si diceva in chiusura…

Wlodek Goldkorn e il direttivo del Fiume

25 ottobre 2015 – A pochi giorni dai 20 anni dalla morte di Itzak Rabin

piazza rabin ottobre 2015
piazza rabin ottobre 2015

25 ottobre 2015 sono a Tel Aviv in una sera di ottobre in cui  piazza Rabin è vuota.  Qualche passante transita veloce verso zone più animate. La piastra in cui alcune grandi pietre, sotto le quali filtra della luce, segnano il luogo dell’uccisione di Rabin, è nascosta sotto la scalinata.

Mi fermo da sola e mi guardo attorno perché è un luogo quasi nascosto e con l’aria che tira, un po’ di apprensione ce l’ho.  So quante aspettative avessero gli israeliani e anche i palestinesi da quest’uomo e dal suo coraggio nel perseguire la pace, e penso a quanti morti da entrambe le parti, sono seguiti a quel drammatico evento.  Uomini che potrebbero cambiare il mondo ma vengono fermati, cosa non nuova e quindi tanto  più frustrante.  In questi giorni cade l’anniversario dei 20 anni e mi piace postare questo scritto di Edgard Keret, scrittore che si è rifugiato nella letteratura dell’assurdo proprio per la difficoltà di accettare un reale  che il finale dell’intervento rivela in modo drammatico!

Quella dell’assassinio di Rabin non è una storia nuova. È una storia che noi israeliani ci raccontiamo da venti anni. Alcuni dettagli sono scomparsi col passar del tempo ma il pathos si è intensificato e alla fine siamo rimasti con la seguente versione: vent’anni fa qui regnava un re coraggioso e benvoluto, pronto a fare qualsiasi cosa per il bene del suo popolo. Un giorno, dopo aver radunato il popolo nella piazza principale della città e aver cantato insieme un inno alla pace, l’amato sovrano fu assassinato da uno dei suoi sudditi che, con tre colpi di pistola, non solo uccise lui ma anche la speranza della pace. Al posto di quel monarca ne arrivò un altro, grande nemico del precedente, che sostituì la speranza con il sospetto e con una guerra senza fine. Ogni anno raccontiamo a noi stessi questa storia triste e piena di autocommiserazione in cui c’è tutto ciò che serve: un eroe, un malvagio, un crimine imperdonabile e una brutta fine.

Manca però una cosa, un personaggio chiave che è stato cancellato dalla trama senza che quasi ce ne accorgessimo: il popolo di Israele. Infatti, per quanto sia triste ammetterlo, Benjamin Netanyahu non ha strappato la corona a Rabin dopo la sua morte autoproclamandosi re. Netanyahu è stato eletto dopo la morte di Rabin nel corso di elezioni democratiche. Lo stesso popolo che ha pianto la morte dell’amato sovrano ha scelto Netanyahu subito e senza esitazione, accantonando completamente l’idea della pace, rieleggendolo più volte e optando per la sua linea politica. Così, a distanza di tempo, l’assassinio di Yitzhak Rabin si è rivelato uno degli omicidi politici più riusciti dell’era moderna che deve il suo successo non solo alla mano ferma del killer ma anche al popolo di Israele, il quale ha aiutato l’assassino a promuovere la sua visione ideologica. La storia è piena di assassinii politici che hanno ottenuto l’effetto opposto di quello auspicato dai loro esecutori. L’assassinio di Martin Luther King promosse il processo di uguaglianza dei neri e quello di Lincoln non ripristinò la schiavitù negli Usa. Quello di Rabin, invece, ha realizzato il progetto dell’assassino, Yigal Amir, e fermato il processo di pace. Ma Amir non sarebbe riuscito nella missione senza l’elezione di Netanyahu da parte di noi cittadini d’Israele. Quel Netanyahu che pochi mesi prima aveva incitato le piazze a opporsi a Rabin e al processo di pace. Così, nella vera storia, a differenza di quella che noi amiamo raccontarci, il popolo di Israele non è solo vittima ma anche partner del crimine. E in questa tragedia, come in ogni tragedia, il castigo non è tardato a venire. Vent’anni dopo l’assassinio di Rabin siamo nel pieno di una nuova ondata di terrorismo. La prima Intifada, iniziata più di venti anni fa con lanci di sassi e accoltellamenti durante gli accordi di Oslo, si fece via via più ingegnosa. Terroristi suicidi cominciarono a farsi saltare in aria con cinture esplosive e infine si passò a una grandine di missili. Ora siamo al punto di partenza, ai brutali accoltellamenti e ai lanci di pietre. Sembra che più si vada avanti, più le cose rimangano le stesse. O forse, sarebbe giusto dire, «quasi le stesse». In questa seconda ondata di accoltellamenti, infatti, le atrocità sono le stesse ma qualcosa per noi, cittadini di Israele, è cambiato. E il cambiamento si è avvertito soprattutto in occasione del linciaggio di Haftom Zarhum, un rifugiato eritreo scambiato per un terrorista avvenuto a Be’er Sheva una settimana fa. Nonostante non avesse compiuto alcun gesto minaccioso né avesse armi da fuoco con sé, Zarhum è stato colpito con sei proiettili e quando già giaceva a terra sanguinante è stato picchiato da alcuni presenti, preso a calci e colpito in testa con una pesante panchina. Uno degli aggressori, arrestato dopo il fatto, ha detto: «Se fosse stato un terrorista tutti mi avrebbero ringraziato». Certo non sarebbe stato condannato dai ministri membri del governo che hanno chiesto di rendere più flessibili le norme che regolano l’uso delle armi da fuoco. E non sarebbe stato condannato nemmeno da uno dei leader dell’opposizione, Yair Lapid, secondo cui troppi terroristi palestinesi vengono catturati vivi. Il tono dominante nei corridoi della Knesset durante l’attuale ondata di terrore è chiaro: dimenticate le regole e il rispetto della legge, chiunque brandisce un coltello, merita la morte.

il gioco di luci della facciata su Piazza Rabin
il gioco di luci della facciata su Piazza Rabin

L’assassinio di Rabin, vent’anni fa, ha segnato un punto di svolta. Che, contrariamente a quanto la maggior parte di noi ama pensare, non è quello in cui abbiamo smesso di prendere l’iniziativa e siamo diventati vittime. Quel riuscito omicidio a sfondo ideologico non ha influito sul grado di controllo che abbiamo sulle nostre vite ma solo sul sistema di valori in base al quale alcuni di noi scelgono di agire. Di recente, a una figura di spicco dei coloni, Daniella Weiss, è stata fatta una domanda a proposito delle minacce di morte ricevute dal presidente di Israele Reuven Rivlin da parte di elementi dell’estrema destra. «Nessuno ucciderà Rivlin», ha risposto lei sprezzante, «non è abbastanza importante». E con questa affermazione ha rivelato una dolorosa verità: in Israele, dopo l’era Rabin, un omicidio politico viene visto non solo come un trauma nazionale ma anche come uno strumento pragmatico, efficace e sempre presente in sottofondo, capace di ribaltare la situazione. E così, nel ventesimo anniversario dell’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin gli israeliani moderati continuano a sperare in due cose: in un nuovo e coraggioso leader che riesca a riempire il grande vuoto lasciato da Rabin e, nel caso si trovi un simile leader, che non venga ucciso pure lui