19 aprile 2012 – Cosa fare per cambiare il mondo in cui viviamo?

eva ciuk a ficarolo

14 aprile 2012Eva Ciuk è entrata con noi de “Il Fiume” nelle scuole Primarie di Ficarolo, con lo scopo di fornire alcune conoscenze sul popolo Rom Sinti, che non ha terra e non la pretende, e forse per questo è maltrattato da tutti.  
Eva Ciuk, giornalista della Rai di Trieste di origine slovena, con i suoi occhi azzurro profondo, ha fatto capire che chiamare “zingari” i Rom è un termine dispregiativo introdotto dal mondo dei “non Rom”.
Ha percorso i maggiori stereotipi legati ad un popolo che ha origini indiane ma si è sparso in tutto il mondo con caratteristiche e nomi diversi, ma con una straordinaria unità di lingua e tradizioni. Grazie alla discussione con i bambini di Ficarolo ha ampliato la loro conoscenza di “persone”, che per il fatto di non avere una terra, un governo, un esercito, non ha diritti ed è indifeso e perseguitato.

Un piccolo passo per i bambini di Ficarolo, un grande passo verso il nostro potere di cambiare il mondo. Solo piccole e pazienti azioni che possiamo compiere individualmente, sono il nostro contributo al miglioramento del tempo in cui viviamo.

manifersto yad vashem

19 aprile 2012– Oggi in Israele è il Giorno della Memoria e dell’Eroismo, questa è la definizione che si dà del ricordo della Shoah, a lungo considerata dagli ebrei di Israele, sionisti e combattivi, quasi una vergogna da riscattare attraverso l’eroismo di chi ai Nazisti in qualche modo si era ribellato.

Lo Yad Vashem il più importante museo sulla Shoah, ha pubblicato il manifesto a lato.
Il valore dell’immagine è altamente simbolico. L’anziano sopravvissuto cammina con a fianco solo le ombre della famiglia che ha perduto in Europa. Da solo porta il peso della testimonianza ma lascerà ai nuovi israeliani il compito di preservare una memoria che sbiadisce, offuscata dal tempo e dall’urgenza di risolvere la difficile convivenza con i Palestinesi. 
I governi di Israele usano la Shoah per ridare una unità ad un paese fatto di molteplicità e uno scopo alla lotta contro gli Arabi. I governi arabi all’intorno girano ad Israele le accuse di perseguitare i Palestinesi alla stregua dei Nazisti, facendo di questo un pretesto per rinfocolare la minaccia di attacco e distruzione dello stato israeliano.

Tra di loro, due popoli, che potrebbero vivere assieme facilmente, condividendo le cose belle della vita, ma sono costretti all’angoscia e alla reciproca sopraffazione.

boris pahor27 aprile 2012 – Il Professor Boris Pahor sarà con Il Fiume e con l’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, ospite della Sala degli Stemmi del Castello estense, ore 17.00, per la presentazione della sua biografia.

“Figlio di nessuno” (Rizzoli editore), il libro scritto a quattro mani da Boris Pahor e dalla giornalista Cristina Battocletti (Il sole 24 ore), è un affresco straordinario del “

5 aprile 2012 – Come inizia una guerra

una delle foto più note dal sito Osservatorio Balcani

Da quando ho letto che, vent’anni fa, anche il generale bosniaco Jovan Divjak non credeva che sarebbe scoppiata la guerra a Sarajevo, mi sento meno idiota. Anch’io, come il generale, non prendevo sul serio i chiari segnali premonitori, le situazioni inconfondibili. Non ci credevo, o non volevo crederci. Persino il giorno dopo il primo attacco su Sarajevo, tra il cinque e il sei aprile 1992, continuavo a dubitare. E così come me molti vicini, amici, colleghi, familiari.

Attaccarono Sarajevo la notte del cinque aprile 1992 con l’intenzione di dividere la città in due. Per tutta la notte ci bombardarono pesantemente, su di noi si abbatté una fitta pioggia di proiettili che andavano a colpire i sottili muri dei palazzi moderni, udivamo gli assalitori che si urlavano tra di loro secchi ordini: “Di qua”, “là”, “avanti”, “indietro”.

Il sei aprile ci svegliammo, si fa per dire, e ci trovammo spontaneamente con i vicini davanti al palazzo. Alcuni erano ancora in ciabatte, altri indossavano il pigiama che si intravedeva da sotto il giaccone, le donne in vestaglia, spettinate, tutti con le borse sotto gli occhi. Il sentimento comune era “Ma come si permettono?”

Ci domandavamo a quali armi appartenessero le cartucce vuote delle pallottole sparpagliate intorno al palazzo. Erano così tante da formare un tappeto color grigio-marrone, brutto, ancora più sgraziato là verso il fiume dove andava a toccare l’erba giovane color verde tenero, puntellata di primule variopinte. Ci si chiedeva a vicenda: “Hai visto?” “Hai sentito quell’esplosione verso le due stanotte?”, prendevamo le cartucce da terra, le esaminavamo, i veterani della Seconda guerra mondiale, più esperti, le giravano in mano, scuotevano la testa.

La conversazione finì con “Sono stati i papci”, cioè i vigliacchi, oppure i malavitosi, e che bisognava trovarli e punirli, ristabilire l’ordine e poi continuare come sempre. Così, dopo circa un’ora dall’incontro, ognuno era tornato a fare quello che di solito faceva in un soleggiato sabato d’aprile: mamma a fare la spesa, papà nel suo bar a bere il caffè e a leggere il giornale, io in centro a trovare gli amici.

Nei successivi giorni di aprile si alternarono gli attacchi, più frequenti durante la notte, con sporadici spari durante il giorno. In città arrivarono i primi giornalisti stranieri. Non meno confusi di noi, giravano in gruppo, cercando i fatti, la guerra. Uno mi aveva telefonato, chiedendomi di fargli da guida. In tre erano arrivati da Belgrado con una macchina presa a noleggio.

Per la città si passava con difficoltà. Era evidente la confusione della gente e che le autorità non avevano più il controllo della situazione. Ovunque c’erano posti di blocco e barricate che venivano erette da chiunque volesse. Talvolta erano i vicini del condominio o gli abitanti di una via che, in questo modo, cercavano di proteggersi. Nei palazzi furono stabilite nuove regole, il portone si chiudeva a chiave e i vicini si alternavano a fare la guardia notturna. Si tiravano via dalle porte e dalle cassette della posta le targhette con i nomi, non volevamo essere identificati, essere divisi, volevamo rimanere uniti e insieme difendere la casa e la città.

Le barricate spesso erano fatte da gruppi di giovani. A una di queste ci fermarono. Erano degli adolescenti, alcuni armati con vecchi fucili, altri con bastoni. Maneggiavano i fucili in modo non curante, senza rendersi conto del tipo di giocattolo che tenevano tra le mani. Poi, vedo che si passano una bottiglia di grappa. Ma questi qua stanno giocando alla guerra, ho pensato. Ci chiesero i documenti.

Non ero spaventata, non per eroismo, ma per ignoranza. Ero piuttosto arrabbiata con loro, perché mi mettevano in imbarazzo davanti ai colleghi giornalisti. “Che razza di figuraccia stiamo facendo davanti agli stranieri?”, mi chiedevo arrabbiata. Era l’immagine del mio Paese che mi preoccupava, non il pericolo immediato. Ci avevano ordinato di scendere dalla macchina. E a quel punto ho capito: vogliono rubarcela. La Tv di Sarajevo aveva già riportato notizie su alcuni malviventi che approfittavano della situazione per rubare quello che potevano. I tre giornalisti confusi e preoccupati guardavano a volte me e a volte quei giovani armati che ci impartivano ordini. Non capivano la lingua, non sapevano perché eravamo stati fermati, né che cosa stava succedendo. Dissi loro di stare seduti e di non lasciare la macchina. Uscii io a parlare con quelli che ci avevano fermato.

Per una quindicina di minuti abbiamo discusso, anzi litigato. Insistevano che scendessimo dall’auto. Infine arrivammo a un accordo, saremmo andati tutti insieme verso un ufficio, una sorta di comando. Alcuni giovani entrarono in auto, e ci ritrovammo in dieci all’interno di un abitacolo per quattro, altri si sedettero sul cofano davanti, o dietro o sul tetto. Guidando a passo di lumaca siamo arrivati al comando. Là un gruppetto di vecchi, mi pareva che anche quelli stessero giocando alla guerra, si passavano di mano in mano una bottiglia di grappa. Ci chiedono chiarimenti, fanno domande stupide, alla fine si mettono a dare pacche sulle spalle ai giornalisti, qualcuno alza le dita della mano facendo il segno di vittoria, uno balbetta in inglese: “Amici, amici”, e poi un altro spara la domanda cruciale: “Ce l’hai una sigaretta?”….

Tratto dal sito Osservatorio  Balcani e Caucaso Transeuropa

Elvira Mujcic a Ferrara e Stienta per parlare di Bosnia e non solo

elvira mujcic

Ogni tanto fa bene, farsi un po’ di male” si lascia scappare Elvira Mujcic, nel mezzo del suo doppio incontro con gli amici de il Fiume, prima a Ferrara in Feltrinelli e poi a Stienta.  In effetti parlare e scrivere di una vita che non è semplice scorrere del tempo, tra piccole e grandi difficoltà della gente comune, ma pittosto, dramma, di una adolescente in mezzo ad una guerra, non è facile.

Al di la della sequenza di cronache di guerra e di vita nei campi profughi, quello che Elvira lascia trasparire è una serenità raggiunta con grande difficoltà e facendo appello a tutti i mezzi possibili, tra i quali la scrittura è uno dei più importanti.  La sua non è scrittura giornalistica, ma introspezione nell’animo di una adolescente, per la quale, la figura del padre, ucciso dalla pulizia etnica serba, rimane un unicum, incorruttibile, se non per lo sfuocarsi della memoria, che le sue ultime lettere speditele,  servono a vivificare drammaticamente.

Elvira dà una grande lezione delle dinamiche psicologiche delle situazioni estreme, quando risponde alle domande sulla paura della morte, e afferma che durante la guerra si pensa alla vita, a come garantirla, attimo dopo attimo, e solo dopo, quando tutto si calma, si pensa alla morte.

Anche dopo, più che la morte e la sua paura, è la “difficoltà di vivere” che prevale, con i sensi di colpa e gli interrogativi sul perché di un destino, anziché di un altro, ed ecco che, oltre alla terapia psicologica, scrivere è la grande medicina.

Il suo diario è iniziato in bosniaco, e man mano che la lingua madre veniva soppiantata dall’italiano, anche la sua scrittura è diventata la nuova lingua che sembrava dare al ricordo il giusto distacco, un filtro necessario, per raccontare di persone e fatti così dolorosi (“guerra, in italiano è parola meno dura di rat  in bosniaco“, afferma sempre Elvira).    Così, mentre il bosniaco respingeva, l’italiano accoglieva la giovane profuga, oggi cittadina italiana.

Alla domanda su cosa pensa della categoria “letteratura della migrazione”, con cui si classificano i libri dei nuovi immigrati, Elvira ammette di aver provato un leggero fastidio iniziale, ma sostiene che sarà la produzione successiva a dare una direzione alla scrittura, che dovrà liberarsi dalla sua storia personale e prendere invece una strada propria.
Le etichette le danno gli altri, per comodità“.

Alla fine abbiamo anche ricevuto una lezione di letteratura contemporanea!

Alcuni scatti della giornata di sabato 17 marzo 2012elvira mujcic e luciano bombarda  
                                       
elvira mujcic e fabrizio fenzi

 
 

elvira, luciano e ludovica

17 marzo 2012- Al di là del caos. Cosa resta dopo Srebrenica

elvira mujcic

AL DI LA’ DEL CAOS

Srebrenica è stata una delle pagine più buie della storia recente. Dopo il genocidio del Ruanda, compiutosi nel luglio del 1994, lontano ma ancora vivo nella sua drammaticità, ancora una volta l’Europa è stata al centro di uno sterminio di massa.

Nel luglio del ’95, le forze serbo-bosniache di Ratko Mladic, nonostante la presenza di Forze di protezione olandesi dell’ Unprofor, massacrarono circa 8000 uomini e ragazzi bosniaci.

Cifre e fatti agghiaccianti, ma quel che atterrisce di più, oltre alla vicinanza all’occidente civilizzato, è la inutile presenza e la totale inefficacia degli eserciti dell’UE e dell’ONU.

Sia in Ruanda che in Bosnia-Erzegovina, l’intervento delle forze di interposizione, o come si vogliano chiamare, non ha avuto nessun effetto pratico sulle violenze contro i civili.

Questa evidenza non ha portato a una revisione e riformulazione dei protocolli di intervento o se lo ha fatto non è la cosa che più risalta, mentre sconvolge il fatto che i soldati di stanza a Srebrenica siano stati insigniti dall’Olanda, con l’avvallo della commissione Europea, di una onorificenza per il coraggio dimostrato.

Elvira Mujcic, nel 93 fuggì da Srebrenica prima del massacro, ma lo visse a distanza con tutto l’orrore che lo accompagnò.

Oggi giovane donna, ma soprattutto scrittrice, Elvira Mujcic vive a Roma ed è una delle voci culturalmente attive nella promozione della conoscenza della sua patria d’origine, ancora in bilico tra la nostalgia di ciò che era ‘Ex-Jugoslavia e l’incertezza ciò che la Bosnia-Erzegovina diventerà, a fronte di un presente in cui niente è chiaro, se non la pericolosa divisione istituzionale del paese.copertina libro

“Al di là del caos” è il primo libro che Elvira ha scritto e che presenterà per “Il Fiume” sabato 17 marzo, a  Ferrara (ore 17.00 in libreria Feltrinelli) e a Stienta nella Sala Consigliare (ore 20.45), per Infinito edizioni ha pubblicato un nuovo libro quest’anno ” E se Fuad avesse avuto la dinamite” .

1 marzo 2012 – TAV in Val di Susa una “partita persa” contro un “partito preso”

 

Tema importante per il nostro Paese la decisione di realizzare l’Alta Velocità tra Torino e Lyone, un’opera che dovrebbe garantire un collegamento preferenziale e veloce verso il nord-ovest, per i fautori, non determinante per i collegamenti e per la crescita economica, oltre che troppo costosa e soggetta ad appetiti mafiosi, per i detrattori.

Come per le centrali nucleari, per la riconversione a carbone della centrale di Polesine Camerini, i temi sono molto importanti e non è facile formulare un si o un no decisi, quando le ragioni stanno da entrambe le parti.

Il rischio che, nel momento difficile che stiamo vivendo per l’economia occidentale, queste ragioni si trasformino in slogan e portino a contrapposizioni e scontri anche tragici, è palpabile e va scongiurato, ma la sensazione è che, comunque vada,  non sarà un successo.

Bene ha descritto la situazione Concita de Gregorio nell’articolo di ieri su Repubblica che riportiamo in parte:

Si può morire per una partita persa, sì. Il partito preso contro la partita persa. È una storia antichissima. Ascoltare Brecht, pensare a noi. Ieri sera a poche centinaia di chilometri dalla Val di Susa è andata in scena a Milano la “Santa Giovanna dei Macelli” diretta da Ronconi.
Coi No-Tav nelle valli a darsi il turno sulla trincea di un pericolosissimo confronto con l’ esercito in forze, un confronto dove faccia a faccia, casco a passamontagna, occhi negli occhi basta niente – una frase, un gesto, un insulto, una stupida provocazione – a far partire le mani, e le armi, e la tragedia, ecco proprio nelle stesse ore sul palco del Piccolo Teatro risuonavano le medesime parole che leggiamo sui giornali ogni giorno. E cosa fare, adesso? Quale soluzione se fin dal principio il dialogo fra i due opposti schieramenti – la popolazione, l’ istituzione – è stato negato? Un testo scritto nel 1929, i giornali di oggi. Giovanna Dark, la versione novecentesca di Giovanna d’ Arco, muore per una
causa persa, impossibile da far valere contro le ragioni del “partito preso“.”

“Le ragioni del popolo e quelle di chi governa l’ economia. La salute contro gli interessi, la tutela dell’ ambiente contro le ragioni di Stato, degli Stati. La promessa di un lavoro in cambio della resa. Ci vuole un martire, sempre, per l’ epica. Un uomo, una donna simbolo. La Val di Susa ora ha eletto il suo, caduto da un traliccio dove era salito a gridare. A teatro Giovanna Dark, una magnifica Maria Paiato, non muore sul rogo ma di stenti. È l’ eroina degli ultimi, degli operai della fabbrica di carne che chiude – c’ è la crisi, siamo nel ‘ 29 – e chiude perché nessuno ha più i soldi per comprare quella carne. Ma se gli operai non avranno lavoro né dunque denaro chi mai potrà più comprare le merci? L’ operaio di Ronconi, il volto ottocentesco di Gianluigi Fogacci replicato in centinaia di cloni sugli schermi, le sue parole sui diritti, sulla giustizia, sulla libertà degli uomini che non hanno voce in cosa sono diverse da quelle di chi combatte oggi contro il partito preso delle grandi opere, sempre dispensatrici di denari a chi ne dispone già in quantità, sempre terreno fertile di corruzione, di delitto, di ingiustizia? E la vedova dell’ uomo caduto nel tritacarne e diventato egli stesso carne in scatola, la signora Luckerniddle (Francesca Ciocchetti, in scena) può forse essere rimproverata di rinunciare a denunciare la fabbrica in cambio di venti pasti caldi? A noi che non abbiamo risposte ma solo domande, oggi, su come uscire dalla polveriera disinnescando le micce, Brecht e Ronconi dicono questo: tutti sono un poco corrotti o corruttibili, tutti hanno le loro ragioni, tutti si tengono. Dei giusti, degli eroi si narra l’ ingenuità, e sempre infine la cattiva sorte. Dei padroni l’ impossibilità – l’ incapacità – di rompere un sistema del quale non sono infine che ingranaggi. Il padrone della fabbrica di carne, il signor Mauler, con la voce e coi potenti gesti di Paolo Pierobon, sul finire dello spettacolo dice così: «È solo con misure estreme che potranno parere dure perché colpiamo qualcuno, o anche molti, a farla breve i più o quasi tutti, solo così potrà salvarsi questo sistema di libero scambio che esiste qui tra noi». Ci si può salvare solo con misure estreme, una frase attuale. Questo “sistema di libero scambio” che esiste qui tra noi, però, non è un buon sistema. È un sistema che ignora le ragioni di milioni di uomini e ne provoca la miseria, la disperazione. «Non c’ è qualcuno che organizzi qualcosa?», chiede Giovanna Dark? «Sì, i comunisti», le risponde l’ operaio. «Ma non è quella gente che inciti a commettere delitti?». I disoccupati della fabbrica, stesi a terra senza forze, non possono neanche sorridere di scherno. Chi commette il delitto, in questa storia? Contro chi? «Bisogna fare attenzione, perché potrebbe anche esplodere una rivoluzione», recitano gli attori di Ronconi. Basta che Giovanna muoia perché l’ esercito delle partite perse si ribelli a quello del partito preso, e per le lacrime sarà troppo tardi. Basta una scintilla sotto le ceneri a incendiare il cantiere. Mai parole, in platea, suscitarono tanta impressione.”

Articolo tratto da Repubblica, 1 marzo 2012