29 novembre 1992 … Eli Wiesel viene portato a Sarajevo assediata

Riprendiamo integralmente dal bellissimo sito dell’ Osservatorio dei Balcani e del Caucaso http://www.balcanicaucaso.org/ l’ articolo scritto oggi da Azra Nuhefendic sulla visita, fatta nel novembre del ’92, del premio Nobel Eli Wiesel, sopravvissuto ad Auschwitz nella Sarajevo assediata.

eli wiesel

Mi trovavo tra i prescelti, non per eccellenza ma per puro caso. Nel novembre 1992 il premio Nobel per la Pace, lo scrittore americano Elie Wiesel, fu invitato a visitare la Sarajevo assediata, per “accertare di persona le giuste ragioni dei serbi nella guerra in Bosnia”, scriveva nell’invito lo scrittore serbo Dobrica Ćosić.

Wiesel fu accompagnato da un piccolo gruppo di giornalisti selezionati, delle testate più importanti del mondo: la CNN, la BBC, il New York Times, e di collaboratori stretti. In onore dell’illustre ospite fu organizzato un ricevimento nell’ambasciata americana a Belgrado.

Una borsa di cibo
In quel momento la guerra stava spaccando la Bosnia da sei mesi. Non mi importava di fare vita sociale, accettavo gli inviti solo se potevo approfittarne: conoscere qualcuno per mandare aiuto ai miei a Sarajevo. Per questo giravo tra gli ospiti con uno scopo preciso. Uno mi chiese se ero interessata ad andare a Sarajevo. Speravo di poter mandare un po’ di soldi, o magari un chilo di cibo, ed ecco mi offrono di andare nella città assediata. Certo, risposi all’istante. Quello mi presentò uno degli organizzatori locali – uno del ministero per le Informazioni – che mi disse quando e da dove si partiva, ed io andai a casa agitata e confusa, cambiando i piani alla velocità di 200 chilometri al secondo.

La sera prima della partenza per Sarajevo, ero a cena, dall’amica Nada Obradović. La padrona godeva di molta stima e la sua casa era l’unico posto dove venivano i diplomatici stranieri, quelli ancora rimasti a Belgrado, perché la maggior parte degli ambasciatori aveva lasciato la Serbia in segno di protesta contro la guerra che stava conducendo.

Ero seduta accanto al diplomatico americano. Per vanità gli dissi che l’indomani alle nove di mattina sarei andata a Sarajevo. “Credo che a quell’ora non andrai da nessuna parte”, mi disse. Imbarazzata, rimasi zitta pensando freneticamente che cosa volesse dire.

Il giorno seguente mi recai al punto di ritrovo, davanti all’Hotel Intercontinental, prima delle sei di mattina. Aspettavo. Verso le sette il gruppo per Sarajevo era al completo. L’organizzatore locale fu sorpreso di vedermi, ma non disse niente. Neanch’io. Con un pulmino ci trasportarono all’aeroporto militare di Batajnica, e da là, dopo molti controlli, ci imbarcammo in un piccolo aereo militare. Non c’erano sedili, eravamo seduti su delle strette panchine di legno fissate su ambedue le pareti del velivolo.

Prima del decollo tremavo come se avessi la febbre, non riuscivo a controllare i denti che battevano, né le ginocchia che tremavano. Avevo paura che all’ultimo momento mi impedissero di andarci, oppure che togliessero la borsa con il cibo che portavo ai miei. Nel patetico tentativo di nasconderla l’avevo messa sotto la panchina.   Durante il volo stavo seduta di fronte a Wiesel. Lo guardavo, volevo capire dal suo sguardo cosa pensasse. Ma era impenetrabile. Statico, con le mani appoggiate sulle ginocchia, guardava dritto, ma avrei giurato che non vedeva niente e nessuno. Sul suo viso nessuna espressione, neanche un muscolo si muoveva. Sembrava impietrito.      Poi, guardavo gli altri del gruppo. All’epoca i sarajevesi soffrivano già la fame, ma nel gruppo dei prescelti nessuno portava neanche un pezzo di cioccolata da dare, magari, a un bambino che avremmo potuto incontrare per caso.

L’aeroporto sulla luna
L’aeroporto di Sarajevo, che conoscevo come casa mia, sembrava una trincea. Così com’era poteva essere in qualsiasi parte della terra, persino sulla luna. I sacchi pieni di sabbia delimitavano lo spazio e l’orizzonte, un frenetico via-vai di militari che impartivano ordini in lingue straniere, e la fretta, la fretta. Da lontano si udivano gli spari delle armi leggere. Quel giorno, per garantire la sicurezza dell’ospite, non bombardavano la città.

Elie Wiesel e un paio dei più importanti personaggi della delegazione furono fatti salire su un carro blindato, per raggiungere il centro di Sarajevo. A noi altri dissero che non potevano trasportarci nel centro della città perché i carri blindati erano impegnati altrove, perciò dovevamo rimanere all’aeroporto. All’ultimo momento riuscii a dare la borsa con il cibo a uno che andava in centro, pregandolo di lasciarla da un’amica nel Palazzo del Governo, dove Wiesel doveva incontrare i politici bosniaci.

Ero arrivata a Sarajevo, ma non potevo muovermi dall’aeroporto! Era troppo. Piangevo a dirotto. Senza controllo né vergogna, correvo dietro a chiunque passasse, tiravo persone sconosciute per le maniche, le pregavo di fare qualcosa, balbettavo tipo “che devo”, che “è importante”, “la mia famiglia”, insomma cose insensate. Niente. Alla fine ho dovuto accettare che non potevo fare niente, tranne telefonare alle mie sorelle per dire che avevo mandato la borsa con il cibo.

Dietro un angolo trovai il telefono appeso al muro. Là c’era un giovane americano che mi chiese se avevo visto la sua collega, una giornalista dell’agenzia stampa Associated Press (AP), che doveva venire a Sarajevo con noi. Lui era un foto reporter (dopo ho saputo che si chiamava Morten Hvral), era arrivato tardi, cercava di rintracciare la collega. “Sei con l’auto, mi daresti un passaggio?”, gli chiesi. “Ok, ho un posto”.

La sua macchina, un piccolo pick up, sembrava un giocattolo. Su ambedue i fianchi c’era la scritta PRESS fatta a mano con vernice bianca. Un altro americano che stava lì vicino chiese anche lui un passaggio. “Ma io l’ho chiesto per prima”, “No, c’ero prima io”, insisteva l’americano. Il reporter aveva fretta, non voleva fare il giudice, e ci disse di tirare a sorte con una moneta. Vinsi io, ma l’americano occupò comunque il posto in macchina, e non voleva muoversi. Il fotografo mi disse “mi dispiace”, e quei due sparirono. Mi accasciai per terra scivolando con le spalle lungo il muro, annegando nelle lacrime, nel dolore, nella disperazione.

Dopo non so quanto tempo, un soldato francese ci disse che c’era la disponibilità di un altro carro blindato e che ci avrebbero portato nel centro della città.

Fuori dal mondo
Quel giorno, il 29 novembre 1992, a Sarajevo, me lo ricordo come se avessi guardato me stessa da uno spazio impreciso, immateriale, al di là, fuori dal mondo fisico. Una parte di me, eterea, come uno spettatore indifferente, seguiva attentamente l’altra parte, fisica, che si muoveva, parlava, piangeva. Sarajevo sembrava un posto riemerso dalla storia, le vie, i palazzi, le rare persone per le strade, tutto era color cenere, parevano le immagini di vecchi film in bianco e nero, quei film muti, dove la velocità è eccessiva o troppo lenta.

Davanti al Palazzo del Governo, ancora prima che si fermasse il carro blindato, vidi mia sorella Esa. Sola, sul marciapiede, era una figura umana misera, in mezzo alle rovine delle case distrutte. Sgomitando tra quelli seduti di fronte a me, uscii dal carro blindato per prima. Abbracciai mia sorella e restammo unite in un unico pianto, dolore e tremore.

Per vedere l’altra sorella, Jasna, dovevamo spostarci verso l’ospedale militare, non lontano da dove eravamo. Per strada incontrai un compagno delle elementari, Zoran Djurica. Mi chiese perché piangevo, e io gli riposi scrollando le spalle. La risposta mi sembrava ovvia.

In quel cammino mi seguivano alcuni membri della delegazione. Un giornalista della RAI faceva le riprese, l’altro, un americano, faceva le foto. Di questo non ho nessun ricordo. Solo dopo anni, quando ho visto il filmato e le foto arrivatemi da New York, ho capito che quelli erano con me.

La mia Jasna era venuta accompagnata dal suo vicino, Slobodan Krajisnik, passando per le vie che erano protette dagli spari. Suo marito, Ilijaš, era rimasto a casa. Nel primo mese dell’assedio era stato bersagliato dai cecchini mentre attraversava il ponte. Si è salvato per miracolo. Poi non è più uscito di casa. Jasna piangeva e ripeteva: “Ho fame, ho fame”. Tutte e tre, abbracciate, piangevamo. Mi chiedevo, terrificata, se le avrei mai più riviste. Quel giorno non riuscii a vedere i miei genitori. Stavano nell’altra parte della città, occupata dai serbi.

Ben presto dovetti salutare le mie sorelle per riunirmi al resto della delegazione. La visita di Elie Wiesel a Sarajevo durò un paio di ore. Prima aveva incontrato l’ex presidente bosniaco Alija Izetbegović e dopo, in un sobborgo di Sarajevo, a Lukavica, Wiesel aveva parlato con il capo dei serbi bosniaci, Radovan Karadžić.

Chi sta bombardando?
Nel primo pomeriggio la delegazione era all’aeroporto per tornare. A Belgrado ci aspettavano centinaia di giornalisti che volevano sentire da Elie Wiesel in persona come stavano le cose. Lo ascoltavo con i nervi tirati al massimo. Aspettavo che descrivesse la situazione che avevamo visto, che dicesse chi sta bombardando, chi è che tiene la città sotto assedio. All’epoca i politici e i media serbi sostenevano che “non si sa chi bombarda Sarajevo”, né “chi sono gli assedianti”. Niente. Elie Wiesel pronunciò alcune frasi neutrali e la conferenza stampa finì presto.
Tornai a casa snervata, sconfitta. Mi tolsi i vestiti e mi misi a letto per morire. Troppe emozioni si erano trasformate in malore fisico. Rimasi a letto una settimana con la febbre alta.

Quattro mesi dopo, nel marzo 1993, Elie Wiesel pubblicò contemporaneamente sul “New York Times” e sul quotidiano francese “Libération”, una lettera nella quale raccontava nei dettagli di come i serbi lo avevano ingannato, che l’avevano invitato in Jugoslavia, gli avevano mostrato un campo di concentramento e poi si erano vendicati con gli internati ai quali Wiesel aveva parlato. Raccontava di aver creduto al comandante dei campi di concentramento di Manjača e di Banja Luka, perché a Belgrado glielo avevano descritto come una persona severa ma giusta, e di come credeva alle parole dell’ex presidente serbo Slobodan Milošević e di Radovan Karadžić.

Fate qualcosa
Poi nell’agosto 1993, alla cerimonia d’inaugurazione del museo dell’Olocausto a Washington, Wiesel si rivolse all’ex presidente statunitense Bill Clinton: «Signor Presidente, c’è una cosa su cui non posso tacere. Sono stato nella ex Jugoslavia e non riesco a dormire per quello che ho visto… Le chiedo di fare qualcosa per fermare le uccisioni… Là (in Bosnia) ammazzano la gente, uccidono i bambini».

Nell’occasione, oltre al presidente americano, c’erano altri 60 capi di Stato. Nessuno intervenne per fermare i massacri e per prevenire ciò che sarebbe accaduto a Srebrenica da lì a due anni.                                              Azra Nuhefendic

 

AZRA NUHEFENDIC E DUNJA NANUT SULL’EX JUGOSLAVIA

       Nanut, Nuhefendic e Bombarda
            Dunja Nanut, Azra Nuhefendic e Luciano Bombarda a Stienta in Sala Consigliare

L’argomento ex-Jugoslavia è di quelli che non si finisce mai di approfondire, sia per la vicinanza ad un occidente che si sentiva lontano dal pericolo della guerra, sia per la sensazione che non sia finito tutto e, sotto la cenere, si mantengano ancora pericolose braci pronte ad infiammare l’area.

I due incontri, del pomeriggio a Ferrara, e della sera a Stienta, con Azra Nuhefendic e Dunja Nanut hanno perciò suscitato interesse e partecipazione, oltre a numerosi interrogativi, da parte di un pubblico coinvolto e preparato.

Se in Libreria Feltrinelli si è insistito sulla leggenda che vede i popoli slavi portatori di aggressività e violenza, miste a spirito di conquista e sopraffazione, nell’incontro di Stienta si è sviscerato maggiormente l’aspetto politico, concentrando le numerose domande sul ruolo del regime comunista e e della figura di Tito come collante di diversità destinate ad accentuarsi alla sua morte.

A tutte le domande hanno risposto a turno, Azra come bosniaca, giornalista ed ex-commentatrice per la tv jugoslava, e quindi persona molto informata dei fatti, Dunja come italiana di origine slovena, insegnante e storica abituata a percorrere la ex-Jugoslavia in lungo e in largo.

Ne è emerso un quadro composito in cui, più che alla “jugo-nostalgia”, si è fatto ricorso all’analisi della vita in un paese che sperimentò la ricerca dell’equità sociale accanto alla volontà di sviluppo industriale, libero dal fardello della sottomissione a Mosca, ma forse da questo penalizzato.     
La cultura e l’istruzione come valori fondanti sono stati indicati come aspetti su cui la barbarie della guerra si è accanita proprio per fiaccare ogni resistenza, ma anche come strumenti per la giustificazione di divisioni più costruite che reali.                    
Per Azra Nuhefendic i diversi gruppi etnici vivevano in armonia reale (e ancor oggi riscontrabile per chi viaggia in questi territori) che solo poteri auto referenziali hanno diviso, sfruttando gli elementi negativi che si annidano comunque nei gruppi umani.

Sarebbe come se gruppi separatisti presenti in Italia e in altri paesi, potessero contare su agganci forti con l’esercito, come accadde per i serbi nell’ex-Jugoslavia, ed ecco che la volontà della minoranza sarebbe imposta con la guerra alla maggioranza.

Se a questo si aggiungono interessi internazionali e un’azione svolta a smantellare ogni possibile alternativa al “mercato” come supremo controllo dell’ordine-disordine mondiale, ecco che anche nel cuore dell’Europa la guerra fratricida diventa possibile.

Come sempre chi partecipa agli incontri di questo tipo può chiarirsi le idee sulle dinamiche che governano il mondo in cui viviamo, se questo poi aiuta ad agire e a contrastare certe degenerazioni, non lo sappiamo, ma ce lo auguriamo.

  Le due relatrici in Libreria Feltrinelli a Ferrara
libreria feltrinelli

19 novembre 2011 – Le stelle che stanno giù – Cronache dalla Jugoslavia e dalla Bosnia Erzegovina

libro azraLa religione in Jugoslavia non era proibita, e non era obbligatorio essere comunisti; da quelli che erano membri del partito, però, si esigeva che fossero atei.   Andjelka non nascondeva mai la sua religiosità, e ne pagava le conseguenze. Il suo talento giornalistico era evidente, ma nella Jugoslavia comunista, una religiosa non poteva fare la carriera che meritava.

….. Negli anni novanta la Jugoslavia spariva, cambiavano i confini del paese, si modificava la società, mutavano valori e ideali. Il comunismo e l’ateismo erano diventati fuori moda e, quasi quasi, fuorilegge. All’improvviso quelli che fino al giorno prima erano comunisti si dichiaravano “religiosi da sempre”.

La mia amica Andjelka rimase la stessa, il suo rapporto con la religione non era cambiato. Lo riteneva, da sempre, una cosa privata. Niente da pubblicizzare, da dimostrare o di cui vantarsi. Tra i camaleonti della nuova società, la mia amica Andjelka rimaneva ancora una volta in disparte.

 

Una prosa come quella di Azra Nuhefendic è di quelle che con calma e concentrazione passa una lama affilata sulle vicende di cui scrive, come il taglio netto e perfetto che mette in luce le parti migliori del pezzo di carne, di quelle che ti fanno dire “mi piacerebbe scrivere così”.   Il buon giornalismo è facile da individuare ma facilmente viene messo da parte in nome dell’opportunismo o delle convenienze del momento. 

L’opportunità di ascoltare Azra Nuhefendic, giornalista di origine bosniaca, nata a Sarajevo, la Gerusalemme d’Europa, è di quelle da non perdere alla libreria Feltrinelli, di Ferrara, sabato 19 novembre 2011 alle ore 17.30, o in aggiunta a Stienta, presso la sala del Consiglio, in Municipio, alle ore 21.00.

15 novembre 2011- La Nazionale di calcio da Napolitano


  Gigi Buffon, Cesare Prandelli e Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica 

Di solito la Nazionale di calcio italiana e i suoi giocatori inneggiavano al Presidente del Consiglio, abituato a far grande una squadra con montagne di soldi , ieri al Quirinale la Nazionale di Prandelli è stata ricevuta dal più sobrio Presidente Napolitano.

Altro momento, altro stile, sia dell’allenatore, sia del Presidente e, finalmente, anche dallo sport nazionale per eccellenza, il calcio, arrivano messaggi positivi.

L’occasione è la celebrazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, con un bel match contro l’Uruguay, una Nazionale che in altri anni ha fatto la storia del calcio, e se la partita finisce con una sconfitta, quanto detto dai giocatori difronte al Presidente non può che essere una vittoria.

Gigi Buffon, commenta il compito di ricostruzione del Governo che il Presidente sta affrontando, «Presidente, ora la partita più difficile è la sua, tifiamo per lei»

«In un momento come questo, la gente ha bisogno di una classe politica coesa, colta e responsabile per riprendersi dalle difficoltà», continua nel suo discorso a braccio, Gigi Buffon, capitano di una nazionale multietnica e spesso, in passato, ingaggiata in duelli verbali con esponenti della Lega Nord.

Nell’occasione Napolitano ha inserito il tema di un nuovo Diritto Civile che apra la cittadinanza italiana a tutti i bambini e le persone nate o residenti in Italia, che concorrono a sostenere l’economia della nostra società.

«Le parole di Napolitano mi hanno toccato profondamente, è la mia storia», dice Mario Balotelli (africano adottato da genitori italiani), dopo il richiamo alla sofferenza dei figli di immigrati che si sentono italiani ma devono aspettar tanto per avere la cittadinanza. «Belle parole – aggiunge Osvaldo, un altro dei naturalizzati di Prandelli, , che ha imposto la sua linea di apertura ai naturalizzati anche contro i pregiudizi degli ultrà, «Io mi sento italiano non solo perchè gioco in nazionale: mia moglie è italiana, i miei figli sono nati qui, ho ben altri motivi per amare questo Paese».

Anche Pirlo, di origine Sinti, ma attento a non farlo sapere troppo visto il clima negli stadi, si è commosso alle parole di Napolitano che ha così concluso: «Vi ringrazio per tutto quel che avete fatto in un anno speciale: mai come per i 150 anni dell’Unità si è affermata l’idea e il sentimento dell’Italia, ci siamo riappropriati della nostra identità e dell’impegno a rimanere uniti. Questo deve valere per tutti, a prescindere dalla normale dialettica. Per voi – la conclusione di Napolitano – l’Italia è sempre stato l’unico riferimento, motivo e ispirazione. All’inizio del mio settennato mi avete regalato un Mondiale, nel 2006, spiace che terminando il mandato nel 2013 non ci sarà occasione del bis: ma continuerò a tifare per voi, finchè ne avrò le forze».

Lunga vita al Presidente della Repubblica, resista, finchè ci aiuterà a cambiare la testa di questo paese!

Antonio Ingroia – Nel labirinto degli dei

il palco del teatro jubilaeum

Il palco del teatro Jubilaeum:
da sinistra Luciano Bombarda, Presidente dell’Associazione Il Fiume, Antonio Ingroia e Nicola Chiarini, giornalista de Il Corriere del Veneto

Antonio Ingroia, il Magistrato che è diventato, un po’ per scelta, un po’ per sorte, il successore di Falcone e Borsellino, arriva a Stienta, giovedì 10 novembre, col solito dispiegamento di forze di chi vive sotto scorta per essere stato minacciato dalla mafia. Con il fare dimesso e quasi imbronciato che lo fa sembrare timido (si vede appena tra gli uomini della scorta), il Giudice raggiunge il palco del Teatro Jubilaeum e con l’aiuto di Nicola Chiarini, giornalista del Corriere del Veneto, inizia a raccontare, in modo sommesso, dei suoi inizi di giovane apprendista a fianco del giudice Falcone prima, e di Borsellino poi.

La sala è piena di uomini e donne, in buon numero i giovani, e nel piccolo paese sulle rive di un Po in cui sta passando la piena, questo è sicuramente un momento memorabile. Il piccolo Magistrato che indaga sulle diramazioni e sulle trasformazioni della mafia, sa dare un saggio di come lavora un giudice, di come si distinguono le figure dei pentiti dalle altre di contorno meno definito (vedi il collaborante Ciancimino), e di quel che significa operare secondo la legge.
Il moderatore, con sagacia, lo porta un po’ alla volta a commentare le vicende più attuali e non può mancare il riferimento alla sua presa di posizione netta in difesa della Costituzione.

E la fermezza con cui il Giudice afferma che la Costituzione va difesa, specie quando afferma che”tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge”, suscita l’applauso caldo del pubblico.  

L’imparzialità e l’indipendenza nel proprio lavoro, non contrastano affatto con la difesa della Costituzione come garanzia dei diritti di tutti i cittadini. E questo, Antonio Ingroia avrebbe detto in qualsiasi contesto perché, “essere partigiano” e quindi prendere posizione e parte per qualcosa di giusto, va ribadito e sostenuto con forza, a fronte di chi ne vuol dare una lettura negativa.

Il pretesto della serata era stato la presentazione del libro di Ingroia “Nel labirinto degli Dei” ed è tra strette di mano e autografi sul libro, che termina un’altro incontro straordinario con uno degli uomini che ci rendono ancora orgogliosi del nostro paese.

Antonio Ingroia
   Antonio Ingroia alla fine della serata