Il 25 aprile è anche la ricerca di valori diversi da attribuire a questa data.
Grazie alla volontà dell’Amministrazione di Costa di Rovigo, sindaco Bombonato e assessore Ferrari in testa e con la giornalista Serena Uccello, presentando il libro “Corruzione” (l’intervista a Piergiorgio Baita ingegnere e testimone del sistema del malaffare che ha ruotato attorno al MOSE) abbiamo provato ad interrogarci sul senso di essere cittadini di un paese che è oppresso dalla corruzione. La corruzione è uno dei mali maggiori dei paesi sottosviluppati ma anche di quelli come l’Italia che non si possono certo definire sottosviluppati.
Nel nostro incontro orchestrato dal Luca Gigli del Gazzettino di Rovigo, abbiamo parlato di corruzione dei governi regionali, quelli che paradossalmente dovrebbero essere più vicini ai cittadini e lontani da “Roma ladrona”, ed invece rubano di più e meglio. Il paradosso a nostro avviso è che si vuole l’autonomia da uno Stato centrale che è la vacca da mungere dei governatori e dei piccoli e grandi funzionari degli uffici regionali oltre che dei partiti regionali!
Sarebbe bello capire cosa porterà di buono l’autonomia regionale tanto decantata, forse un minore controllo? Minori trasferimenti allo Stato? E allora chi fornirà i congrui mucchi di denaro che servono al sistema della corruzione?
Luca Gigli e Serena Uccello hanno conversato sul merito della mala-gestione delle opere pubbliche che anzichè farci onore, come un tempo, sono ricettacolo dei nostri peggiori difetti.
Eppure la giornalista è partita dal senso di grandiosità di un’opera come il MOSE ( MOdulo Sperimentale Elettromeccanico ossia il sistema di dighe mobili a protezione di Venezia dall’acqua alta) , frutto dell’intelligenza e dell’applicazione di tecnici convinti della bontà del loro lavoro a partire proprio da quell’ingegner Baita che ha fornito tutti i dati per il libro-intervista.
Dagli interventi del pubblico presente è emersa la stanchezza per un sistema che ha contagiato la coscienza nazionale e si ritrova in tutti i gangli della vita civile, dal piccolo artigiano che ricarica sul prezzo di tutti i materiali, al funzionario che deve dare un’autorizzazione, al tecnico che assicura di poter far avere un’autorizzazioni altrimenti impossibile, al Governatore della Regione. Come Associazione il Fiume abbiamo formulato la domanda retorica, se fosse stato tanto difficile realizzare un’opera grandiosa, spendendo il giusto in remunerazioni delle ditte e dei lavoratori coinvolti, con l’attenzione ad un bene ineguagliabile come la Laguna Veneta e con grande profitto dei veneziani e di tutto il paese? Evidentemente per l’Italia sarebbe stato ed è difficile lavorare in questi termini.
Un quadro sconsolante ed un terreno di battaglia per cittadini e comitati.
Moira Ferrari, Chiara Fabian, il sindaco Antonio Bombonato, Serena Uccello e Luca Gigli
Sono stata invitata dagli amici dell’ANPI di Stienta (Ro) ad intervenire in qualità di presidente dell’Associazione il Fiume per ricordare il 72° anniversario della fine della guerra e della liberazione, una guerra lunga e tragica per i milioni di morti in tutto il mondo.
L’Associazione il Fiume è entrata nella grande storia per raccontarne aspetti in apparenza minori ed estranei ma in realtà strettamente intrecciati con il vissuto di questi luoghi. Attraverso una lunga ricerca durata dieci anni abbiamo documentato come il fascismo abbia supportato prima con l’ideologia e poi con atti concreti, la persecuzione degli ebrei stranieri, giunti come profughi anche nei piccoli paesi della provincia italiana dalle nazioni europee in guerra. Accanto ai persecutori, abbiamo scoperto anche le storie di molti italiani solidali che hanno salvato e protetto ebrei, senza chiedere in cambio nulla, in un puro e semplice esercizio di umanità. Abbiamo svelato lati ancora oscuri di una storia che gli italiani hanno liquidato velocemente per paura di doverci fare i conti, ma che è molto utile per spiegare alcuni concetti fondamentali.
Cippi e lapidi punteggiano la campagna del Polesine a ricordo delle uccisioni perpetrate dai nazisti in ritirata alla fine della guerra
Oggi celebriamo il 25 aprile, una delle più importanti ma anche sofferte date del calendario civile, mai condivisa da tutte le parti politiche perché il nostro paese è giunto all’atto finale lacerato da una guerra fratricida. Proprio per la difficoltà di vivere fino in fondo la “com-mozione” in quanto “muovere insieme” di emozioni da parte di un popolo, abbiamo maturato l’importanza di segnare con cerimonie ma soprattutto con la conoscenza la memoria di questa data. Senza conoscenza si cade nella polemica come quando negli ultimi anni si è tentato di metter sullo stesso piano vittime e carnefici. Solo la conoscenza della storia può salvare dalla confusione che si può fare della storia. Tuttavia non è tra adulti e ultrasessantenni che dobbiamo raccontarci da quali atrocità è nata l’Europa moderna e quale è stato il contributo della nostra Resistenza. Nostro dovere è, invece, quello di trasmettere ai ragazzi che sono nati nel secondo millennio, la conoscenza di quanto è successo in queste date e che cosa queste date rappresentano per il nostro paese.
Ho avuto la fortuna di essere stata chiamata ad insegnare in questi ultimi anni e spesso ne approfitto per far domande ai ragazzi. Quando chiedo “ma voi sapete cosa si celebra il 25 aprile?” le risposte sono le più diverse. Alcuni non hanno la minima idea di cosa si celebri ma sono contenti di avere un giorno libero da scuola. Qualcuno ricorda vagamente che si festeggia la “liberazione” ma poi non sa da chi o da che cosa. Altri rispondono che “ci siamo liberati dai tedeschi” ed è la mezza verità di chi, almeno, ha avuto dei maestri oppure proviene da una famiglia che ha vissuto la storia sulla propria pelle.
Moltissimi ragazzi provengono da nazioni e culture diverse, e sono stati sradicati fin da piccoli dai loro paesi, ma saranno nostri concittadini adulti fra qualche anno e a loro stiamo insegnando la nostra storia … per questo dobbiamo farlo bene.
Tutti questi ragazzi entreranno a pieno titolo in una società europea in cui avranno molti doveri e anche molti diritti, ma se sapranno come li abbiamo ottenuti forse sarà più facile per loro esserne dei garanti. Per tutti loro dobbiamo ribadire che Il 25 aprile si festeggia la liberazione dell’Italia dalla dittatura nazi-fascista, ma soprattutto dobbiamo spiegare in cosa consiste una dittatura.
Per noi che abbiamo un bagaglio di memoria e abbiamo ascoltato dalla voce di chi ha vissuto in prima persona le vicende del secondo conflitto mondiale, è facile capire la gioia e l’orgoglio di questa ricorrenza, ma sono i ragazzi di oggi, i nativi digitali, che vanno portati in piazza e ai quali bisogna spiegare perché il nostro paese e il resto dell’Europa avevano il cuore pieno di gioia il 25 aprile del 1945!
Non ci sono quasi più i giovani partigiani di allora a raccontarlo, così come si stanno spegnendo i testimoni della shoah e stiamo perdendo la memoria col rischio che, senza testimoni, una storia, anche se scritta, venga travisata o addirittura negata.
Per questo dovremo attrezzarci molto bene per il futuro e trovare mille modi per spiegare ai ragazzi, ad esempio, che a Stienta e nel Polesine, nonostante i fascisti e i nazisti controllassero il territorio con migliaia di soldati, c’erano uomini, donne e ragazzi che nel silenzio e nella paura ma con coraggio, preparavano azioni, si coordinavano con le truppe alleate, nascondevano soldati paracadutati, raccoglievano armi e , certo, perdevano anche le loro giovani vite per contribuire a cambiare lo stato delle cose.
Primo Levi, scrittore, ebreo e partigiano
“Il fascismo non era altro che la consacrazione del privilegio e della disuguaglianza e il nazismo in Germania è stato la metastasi di un tumore che era iniziato in Italia” sono parole di Primo Levi, perseguitato come partigiano e come ebreo e quindi doppiamente titolato a parlare.
Ma come riconoscere, oggi, il germe di una dittatura? Quale “resistenza ” è necessaria oggi che siamo in una democrazia e sembra che i nostri privilegi siano minacciati solo dalla crisi economica e da qualche migliaio di profughi?
A che serve commemorare e ricordare se la memoria non diventa esercizio attivo per riconoscere i mali che se trascurati possono diventare metastasi? Sempre Primo Levi, che era uno scienziato abituato ad analizzare la materia fino al più piccolo degli atomi ma da scrittore riusciva anche ad avere un quadro d’insieme, diceva che “là dove c’è un verbo che dice “non siamo tutti uguali, alcuni hanno diritti e altri no”, alla fine di tutto questo c’è il lager”.
E allora la commemorazione deve essere accompagnata dal mettere in guardia che la libertà non è scontata, che anche un blog si può oscurare, che anche i giornalisti possono essere incarcerati per non scrivere o possono essere comprati per non denunciare.
“La libertà è come l’aria ci si accorge quanto vale quando comincia a mancare” diceva Calamandrei, ma per insegnarne il valore dobbiamo far capire che l’unica garanzia per la libertà è l’esercizio della democrazia attraverso la partecipazione (la più bella liaison inventata da un cantautore!).
Accanto alla posa della corona nei cippi delle stragi dobbiamo spiegare che le scelte sono sempre individuali e ciascuno è libero di scegliere di dire “no” ad un comando ingiusto, “no” ad una menzogna fatta passare per verità, “no” ad una mazzetta per ottenere un favore. Se come ha detto ancora Calamandrei“La libertà è condizione ineliminabile della legalità; dove non vi è libertà non può esservi legalità” allora c’è da chiedersi se non dobbiamo ancora conquistarla la libertà visto che la legalità è ancora uno dei nostri problemi più gravi e forse anche oggi abbiamo dei “partigiani” che spendono la loro vita per garantire la legalità. Non a caso domani sera l’Amministrazione di Costa di Rovigo e l’Associazione il Fiume ospiteranno la giornalista Serena Uccello che presenterà un libro dal titolo “Corruzione” che ricostruisce l’architettura della de-costruzione del nostro paese. Un tema è tra i più importanti nella nostra attualità. Ecco forse il 25 aprile deve essere celebrazione di chi ha combattuto per dire “no” a ingiustizia, privilegi al diritto del più forte, ma anche supporto oggi a chi ancora combatte per dire il proprio “no” alle ingiustizie, alla sopraffazione, alla discriminazione di ogni tipo, alla menzogna passata per verità ed al razzismo. E mi pare che la lotta sia ancora dura
Per il paese di Due Carrare martedì 28 marzo è stata una data importante. La storia del salvataggio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale era nota ad alcuni dei suoi cittadini e agli appassionati di storia che avevano letto qualcosa sul ruolo di Don Torresin nel salvataggio dalla fucilazione degli uomini del paese a guerra finita. Non c’era stata ancora l’occasione, però, di presentare al pubblico più vasto una delle storie più belle che la ricerca di Luciano Bombarda aveva portato alla luce. La cerimonia di martedì ha dato questa opportunità e ha consentito alla famiglia dei “salvati” di esprimere la loro gratitudine con una delle onorificenze più alte che siano state istituite nel ‘900. Grazie alla perseveranza di Reuma Ayalon e dei suoi fratelli, figli di Esther Danon rinchiusa per un anno e mezzo nella soffitta di Pontemanco, lo Yad Vashem ha valutato tutte le prove e i documenti arrivando alla cerimonia ufficiale dei giorni scorsi.
Si è trattato di una cerimonia molto “israeliana”, formale quanto necessario ma priva di retorica. Con grande sensibilità il Sindaco di Due Carrare, Davide Moro e l’Associazione il Fiume hanno introdotto brevemente i fatti e i protagonisti lasciando poi al Ministro consigliere dell’Ambasciata d’Israele la lettura della motivazione e la consegna della medaglia a Claudio Brunazzo, figlio di Isidoro e nipote di Guerrino Brunazzo.
Il Sindaco di Due Carrare Davide Moro, Claudio Brunazzo e il Ministro Ambasciatore Raphael ErdreichMaria Chiara Fabian presidente dell’Associazione il Fiume e Claudio Brunazzo, nipote di Guerrino Brunazzo, con la medaglia e l’attestato
Non essendo presenti per motivi di lavoro i figli di Esther Danon è toccato a Chiara Fabian leggere il testo di una lettere di Reuma Ayalon che traccia la storia del ritorno a Pontemanco della terza generazione dei salvati e di come si è arrivati alla cerimonia da parte di Israele. Di seguito quanto letto per conto di Reuma Ayalon.
“Per noi cominciò tutto nel 2000, quando (mia figlia) Gilly riuscì a convincere la nonna Estica a testimoniare allo Yad Vashem a Gerusalemme. Vi andammo insieme con la mamma ma non ci aspettavamo il viaggio comune che da lì sarebbe iniziato.
Durante la mia infanzia avevo sentito dai miei genitori solo piccoli pezzi della loro storia, ma soprattutto tante calde parole sul popolo italiano. Non capivo cosa c’entrassero gli italiani perché sapevo che i miei erano nati a Zagabria in Jugoslavia… Non vollero mai parlare della loro infanzia dicendo soltanto che durante la guerra erano fuggiti da Zagabria in Italia ed erano arrivati in Israele da adolescenti. Da giovane avevo saputo solo che mia nonna Sarina Danon era stata uccisa ad Auschwitz. I miei genitori non vollero mai essere considerati “sopravvissuti dell’olocausto” erano giovani e volevano ricominciare la loro vita lasciandosi alle spalle il passato. In più negli anni del loro arrivo in Israele attorno a loro c’erano tantissime persone sopravvissute alla guerra, ai campi di sterminio e a tante altre difficilissime esperienze, o che avevano perso le loro famiglie. Così mia mamma non pensava che la sua storia fosse degna di essere raccontata. … Quando insistevo mi raccontava solo piccoli episodi, fuori contesto. Prima di partire per la Polonia (in un viaggio della memoria), Gilly chiese alla nonna di raccontarle qualcosa in più sui suoi genitori e sulla storia della sua famiglia e finalmente la mamma sui convinse che la terza generazione aveva il diritto di sapere cosa era accaduto. Passarono però ancora due anni prima della testimonianza allo Yad Vashem. Quando poi vedemmo il video della testimonianza della mamma scoprimmo una storia ammaliante, di una bambina separata dai genitori a soli 12 anni, che non vide più la mamma e visse in un paese straniero per cinque anni, una bambina che fu salvata con gli zii dalle persone gentili incontrate per caso e che , infine, arrivò in Palestina.
Dopo aver visto quel video non potevo più aspettare e così con mio marito Zohar, decidemmo di fare un viaggio in Italia e provare a vedere se restavano ancora delle persone che ricordavano la storia dei sette ebrei nascosti nella soffitta. Volevo provare a trovare il partigiano Isidoro Brunazzo ma da Israele non avevo idea di dove viveva e se era ancora vivo. …. La mamma pensava che tutto era cambiato, che non avremmo trovato niente. Ci fornì dei nomi e delle foto e solo allora capimmo che teneva ancora gelosamente quelle foto che non aveva mai fatte vedere in tanti anni per non turbarci col peso dei ricordi.
Non eravamo riusciti a trovare Pontemanco sulla carta e quindi fuori dall’autostrada chiedemmo a delle persone che ci mandarono a Due Carrare, finchè arrivammo a Pontemanco dove trovammo la stessa identica vista della cartolina che avevamo con noi e che la mamma conservava dal 1947. Fu commovente fino alla lacrime!
Poi incontrammo Antonio e Dina, Paola la nipote di Emilio Bertin, il mugnaio, e poi il partigiano Isidoro Brunazzo. Quando incontrai quest’ultimo e gli feci vedere la foto che lui stesso aveva dato alla mamma alla sua partenza esclamo subito “Estika!” Erano passati 56 anni ma si ricordò tutto immediatamente quando confrontò la foto con me. Poi mi disse “Perché avete aspettato tanto tempo prima di venire?” Lo mettemmo subito in contatto telefonico con la mamma in Israele e tutto l’ italiano che lei era sicura di aver dimenticato, tornò fuori in un attimo! Con esso tornarono anche i ricordi chiusi in lei, quelli della mamma Sarina e della casa che aveva lasciato 60 anni prima. Non fu per lei un periodo facile.
Cinque anni dopo riuscimmo a convincere mamma a venire con noi in Italia a vedere i luoghi e a incontrare le persone. Tornammo a Pontemanco e a Zagabria dove era nata. Con mio marito e le nostre due figlie abbiamo rivisto Cesarina Bertin e i suoi figli Anna e Guglielmo che nella loro infanzia avevano sentito raccontare la storia dal nonno Emilio Bertin, mentre Isidoro purtroppo, nel frattempo, era mancato. Incontrammo Ida la nipote del farmacista con suo marito e condividemmo una stupenda cena in casa di Dina e Antonio. Capimmo allora sempre più che mia madre era stata salvata in Italia e che ancora oggi esistono persone gentilissime che continuano ad ospitare e dare con tutto il loro cuore, senza limiti, così che anche il nostro cuore si è quasi fermato dalla gioia e per la gratitudine di aver avuto la possibilità di conoscere le persone meravigliose che salvarono la vita di mia mamma e che anche allora erano felici di incontrarci aprendo le loro case e i loro cuori per noi. Furono loro a ringraziarci per essere venuti..
Sono crescita con la frase “Sono sopravvissuta grazie al popolo italiano!” Oggi più che mai sento il calore e il vero amore umano della frase che mi ripetevano spesso i miei genitori nell’infanzia”. Con tantissima gratitudine.
Il Ministro Consigliere di Israele Erdreich, il sindaco Davide Moro e Floriana Rizzetto presidente dell’Anpi di PadovaDavide Moro e Antonio Favaro giovanissimo testimone delle vicende
La medaglia di “giusto tra le nazioni” conferita dallo Yad Vashem
A più di 70 anni dalla liberazione dal nazifascismo ci sono ancora molte storie da raccontare. Una è quella di Pontemanco e delle famiglie Brunazzo e Bertin e delle famiglie Hasson e Mevorach che vennero salvate dalla solidarietà dei primi.
A Pontemanco (un borgo ai piedi dei Colli Euganei oggi frazione di Due Carrare) negli anni ’40 erano quasi tutti socialisti, di quelli che si riferivano a Matteotti, l’unico politico che contrastò con forza Mussolini.
Dopo l’8 settembre del 1943 arrivarono in paese alcuni profughi ebrei che fuggivano dall’ internamento libero in provincia di Rovigo. I profughi erano clandestini e ricercati dal ricostituito governo fascista della Repubblica di Salò e dai Nazisti.
Per loro si aprirono le porte di casa Brunazzo; Guerrino, vedovo, la sorella Erminia e due figli maschi, Attilio in seminario e Isidoro ventenne, nascosero dal 31 dicembre 1943 al 27 aprile 1945 a ben sette persone, quattro adulti e tre ragazzi, a rischio della vita.
Tutto il paese che sapeva aiutò e chi non sapeva, ma intuiva, tenne la bocca chiusa.
Nutrire e alloggiare sette persone in più in tempo di guerra col razionamento e la scarsità di viveri non fu facile, per gli acquisti servivano, infatti, le tessere annonarie.
A Pontemanco però il mugnaio Bertin fornì legna, farina e tutto quel che poteva, il farmacista dottor Fortin fornì medicine e assistenza, il parroco don Torresin conforto e notizie sul corso della guerra.
Il 27 aprile ad un soffio dalla ritirata dei tedeschi un episodio rischiò di causare a Pontemanco una delle tante stragi nazifasciste ma la determinazione del parroco rese possibile la salvezza di settanta uomini del paese tra cui i gli ebrei, scambiati per partigiani perché non erano abbronzati come lo erano i contadini del luogo.
Fu così che gli Hasson, Ido, Sida e la figlia Blanka con la nipote EstherDanon e i Mevorach, Israel, Tinka e Isacco in fuga da Jugoslavia e Bosnia Erzegovina riuscirono a salvarsi e continuare a vivere.
Lo Yad Vashem, l’istituzione che si occupa in Israele dello studio e della raccolta del materiale sullo sterminio del popolo ebraico, attraverso l’Ambasciata di Israele in Italia conferirà martedì 28 marzo presso il comune di Due Carrare la medaglia di “giusto tra le nazioni” ai discendenti della famiglia Brunazzo.
La cerimonia si svolgerà martedì 28 marzo alla Casa dei Carraresi in via Roma 33, nel Comune di Due Carrare alla presenza del Sindaco, dell’Ambasciatore di Israele in Italia e dei discendenti delle famiglie Brunazzo e Mevorach e con l’Associazione il Fiume a rappresentare la famiglia di Esther Danon.
Il Giorno del ricordo, il 10 febbraio, è stato istituito al fine di “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.
Tra le commemorazioni, celebrazioni, santificazioni e reportage di pubbliche cerimonie, il contributo più interessante lo dobbiamo al giornale Internazionale che ha interrogato diversi storici su alcuni aspetti del problema.
In cosa consiste la “più complessa vicenda”?
Il collettivo Nicoletta Bourbaki, gruppo di lavoro sul revisionismo storiografico, ha chiesto a sette storici di rispondere alla domanda.
Di seguito gli interventi dei vari autori che val la pena di leggere nel numero della rivista Internazionale del 2 febbraio 2017.
Sul confine orientale, la storia trasformata in olocausto, di Federico Tenca Montini Il prequel del Giorno del ricordo. La Venezia Giulia dalla prima alla seconda guerra mondiale, di Piero Purini Persecuzioni, crimini fascisti e resistenze nei Balcani e nella Venezia Giulia, 1920-1945, di Anna Di Gianantonio, Carlo Spartaco Capogreco, Eric Gobetti, Nicoletta Bourbaki Esodo e foibe. Separare ciò che appare unito, di Jože Pirjevec, Nicoletta Bourbaki, Sandi Volk Il viaggio continua. Possibili percorsi di approfondimento, di Nicoletta Bourbaki
Più modestamente, come Associazione il Fiume, abbiamo invitato due giovani storici, Alessandro Cattunar per parlarci delle vicende del “confine orientale” e Irene Bolzon per relazionare sull’esodo dei giuliano-dalmati e istriani.
Alessandro Cattunar al Circolo Azzurro di Occhiobello
A Occhiobello (Ro) con Alessandro Cattunar è stato importante raccontare le vicende del confine orientale con tutto il contorno di complessità e violenza.
Il pubblico di un centro sociale molto attivo e ricco di attività culturali e ricreative per anziani, il Centro Azzurro, ha ascoltato con attenzione vicende che non erano certamente note. L’età matura del pubblico a volte aiuta a collocare storicamente gli eventi rispetto a quando si parla ad una platea di ragazzi, ma non è scontato che le persone, oltre all’esperienza, abbiano approfondito e ampliato la conoscenza.
Nel nostro caso la storia di come gli abitanti delle terre contese del confine orientale hanno vissuto occupazioni plurime e di come si sia arrivati alle foibe, è stata narrata con serietà e obiettività, contestualizzando le “memorie” che sono sempre personali e non condivisibili.
A Rosolina, la chiarezza di Alessandro Cattunar è stata molto apprezzata anche nella mattina di sabato 11 febbraio, nell’incontro portato alle scuole medie del paese per volontà dell’assessore Anna Frasson.
Come sopra accennato , far capire a dei ragazzi, che spesso arrivano di corsa a fare la seconda guerra mondiale, vicende così complesse e poco conosciute non è facile.
Il pregio di Alessandro Cattunar è stato la chiarezza e la capacità di adattare la sua relazione al pubblico che aveva davanti senza togliere profondità al discorso.
A Costa di Rovigo, in Biblioteca “M. Buchaster”, con Irene Bolzon1 abbiamo parlato di “foibe”, ancora una volta e difronte ad un altro pubblico. La giovane storica trevigiana, laureata a Udine con una tesi sul confine orientale basata su ricerche in archivi mai aperti fino ai nostri giorni, ha introdotto la sua relazione partendo da una circolare che l’assessore regionale del Veneto Elena Donazzan ha inviato a tutti i dirigenti scolastici. Nella circolare l’assessore incasella una serie di errori ed imprecisioni storiche nell’ansia di invitare le scuole a parlare ai ragazzi del tema che le sta a cuore. A partire da queste imprecisioni Irene Bolzon, con grande precisione, ha sciorinato una serie di dati, e date, che hanno messo in luce la successione degli eventi.
Irene Bolzon a Costa di Rovigo
Dalla periodizzazione delle foibe alla periodizzazione dell’esodo (avvenuto nell’arco di dieci anni e con motivazioni plurime) abbiamo capito che la complessità delle vicende del confine conteso tra vincitori e vinti, è niente al confronto di come gli esuli sono stati utilizzati dallo Stato Italiano per pesare ai tavoli delle trattative. Complessità su complessità, che nulla toglie al dramma delle memorie di chi ha vissuto sulla propria pelle quelle vicende, ma un conto sono le esperienze e le memorie, un conto le dinamiche storiche specie se cambiate molte volte nel dopoguerra (dagli accordi tra America, Inghilterra e Russia con la Francia a reclamare il suo ruolo, fino allo stacco della Jugoslavia di Tito con il PCUS e relative conseguenze). Non a caso ci vorranno dieci anni per trattare sulla linea del confine e poi tracciarla. Una storia a volte ingarbugliata, che si può riassumere e “tagliare con l’accetta” solo guardandola da lontano mentre noi siamo abituati a usare il microscopio! In questi giorni alla luce delle rivendicazioni fatte da alcuni politici nelle interviste televisive viviamo una sorta di straniamento. Assistiamo a comizi di persone che tendono a riscrivere la storia operando una sorta di “rewind” che ne cancella parti molto importanti e decisive. A noi comuni mortali se, da un lato, sembra drammatico aver perso l’Istria e la Dalmazia, dall’altro ci sembra invece chiaro che avremmo potuto perdere anche Trieste se tra Alleati e Jugoslavi non si fosse dato un peso, seppur minimo, all’Italia Resistente che aveva partecipato all’ultima fase della seconda guerra mondiale. Con buona pace dei revisionismi storici.
1 Irene Bolzon è stata nominata direttrice dell’Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea della Marca Trevigiana