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Profughi e fuggiaschi

Walter Benjamin
Walter Benjamin

Crediamo che lo storico e sociologo David Bidussa non ce ne vorrà se riprendiamo un suo breve articolo dello scorso settembre per riflettere su una figura di intellettuale tedesco anche al di fuori delle date e degli anniversari.  Una riflessione che dalla vicenda dello scrittore si proietta sul nostro presente.

Scriveva Bidussa nel suo blog:

Sabato 26 settembre 2015 ricorreva il settantacinquesimo anniversario del giorno in cui sul confine franco-spagnolo Walter Benjamin sentendosi un uomo braccato che nessuno era disposto ad accogliere, temendo di essere oggetto di respingimento, ovvero di essere rigettato indietro nelle mani dei suoi possibili carnefici, insomma sentendosi sfuggire tra le mani l’eventualità di poter vivere libero, decise di porre fine alla sua vita.

Molti hanno ricordato la sua genialità, i suoi scritti, il suo essere una figura intellettuale che non riuscì a parlare al suo tempo. Chi ha parlato della scena e delle circostanze di quella morte l’ha proposta come “compimento” coerente di quella vita. Non è improprio ma con ciò si perde si tende a mettere in secondo piano il fatto che esse costituiscono il testo più saliente di questo nostro tempo. Il 25 settembre 1940, Walter Benjamin, in fuga dai nazisti e nel tentativo di emigrare in America, giunge a Portbou, luogo di passaggio alla frontiera franco-spagnola. La Gestapo ha da tempo requisito la sua casa a Parigi e sequestrato la sua biblioteca. Con sé, in quella fuga disperata, ormai privato della nazionalità tedesca fin dal 1939, porta una borsa di cuoio nero che contiene il suo ultimo manoscritto, ancora più importante della morfina che gli sarebbe servita per fuggire via dalla vita, se i nazisti l’ avessero raggiunto, come dice a Lisa Fittko che guida il gruppo dei fuggitivi.

Benjamin, pur essendo cardiopatico, accetta di percorrere il sentiero attraverso le montagne, dove sarebbe stato possibile, anche in assenza del visto di uscita dalla Francia (che aveva promesso l’estradizione verso il Terzo Reich dei rifugiati provenienti dalla Germania), raggiungere la frontiera spagnola. Ma quel giorno la Spagna aveva chiuso il suo confine e il piccolo gruppo di profughi deve tornare indietro. Viene offerta una dilazione di un giorno e nella notte Benjamin, la notte del 25 settembre, scrive un’ultima lettera indirizzata ad Adorno: “In una situazione senza uscita, non ho altra scelta se non quella di farla finita”. Poco dopo ingerisce la morfina che ha con sé e muore. È la sera del 26 settembre. Quella stessa notte arriva il consenso all’ingresso in Spagna. Gli altri passano. Di quell’istante si può proporre un’anatomia e dunque ripetere con Hannah Arendt che uccidersi in condizioni drammatiche quando la propria vita è in mano ai tuoi carnefici, o rischia di divenire loro preda, corrisponde a un atto di libertà. Ovvero è la dimostrazione che ancora si possiede una personalità e dunque si è ancora proprietari del proprio corpo.

Non credo che fosse la condizione in cui si trovò Benjamin. La sua era invece la dimensione del fuggitivo o del profugo, (…).  Una condizione che rappresenta la genealogia delle molte scene che riempiono la nostra quotidianità. Per questo vale la pena discuterne. Proprio perché riflettere intorno a quella morte non è erudizione.

Abbiamo impiegato molto a prendere confidenza con la scena di Portbou. Tuttavia, quando l’abbiamo fatto, abbiamo tentato di rendere quella scena la più innocente possibile. Intorno a quello scenario si sono consumati molti malintesi, alcune situazioni incongrue e il meglio e il peggio dell’Europa di allora è emerso. In breve: la catena degli aiuti e l’indifferenza; il doppio gioco e la freddezza burocratica; il senso degli affari – una volta intuita la rilevanza del personaggio Benjamin – e il comportamento della popolazione locale, dall’albergatore – che emetterà una fattura di cinque notti di pernottamento, quando dal 25 settembre sera è chiaro che al massimo si tratterà di una notte – agli addetti del cimitero che, come ricorda Scholem, capito l’affare, mostrano a tutti una tomba falsa.

Una storia senza fine quella di Walter Benjamin, non solo quella della sua persona ma anche quella del suo corpo (che comunque non si trova più). Una storia in cui si intrecciano e si sovrappongono molte cose: i resti di ciò che c’era lì’ – in quella stanza e nel paese quella notte – e che costituiscono la memoria del luogo; il processo successivo di musealizzazione, di storia ricostruita, di “memoria inventata” che costituiscono la costruzione di Portbou come “luogo della memoria”; l’edificazione del memoriale che Dani Karavan ha dedicato a Benjamin. Portbou a lungo è stato solo un punto dove la disperazione di alcuni suoi amici (Adorno, Hannah Arendt, Gershom Scholem) ha provato a misurarsi con la combinazione assurda di caso, di condizionamento della storia e profilo della personalità, come ebbe a sottolineare Hannah Arendt.   Poi però qualcosa è cambiato.

Che cosa ci affascina, dopo lungo silenzio, nella scena di Portbou, una delle tante “Termopili del XX secolo”dove sono caduti vittime della barbarie combattenti solitari?

( … ) L’effetto è che la coscienza europea rovescia in merito ciò che è essenzialmente un buco nero della sua storia e nella storia d’Europa: il totalitarismo nazista, prima ancora di diventare una macchina industriale di sterminio, ha espulso dal territorio tedesco circa mezzo milione di ebrei e li ha in gran parte, con traversie e spesso con grandi malesseri, spinti al di là dell’Oceano, spesso con l’effetto di aver contribuito al consolidamento del primato intellettuale degli Stati Uniti nel secondo dopoguerra. Portbou oltre l’attimo di disperazione sarebbe perciò tutto questo. Il segno di ciò che l’Europa poteva essere, della sua capacità di essere se non fosse incorsa in quella parentesi dei totalitarismi. Con una piroetta logica l’Europa, coglie “l’opportunità Portbou” celebrando se stessa contro la sua storia e riducendo i suoi totalitarismi a un incidente di percorso. La conseguenza è duplice: autoassolversi e evitare di farsi delle domande, non solo su allora, ma soprattutto su oggi.

il Memoriale di Portbou
il Memoriale di Portbou

La scena di Portbou chiama altre scene. Sono quelle degli “uomini in fuga “ del nostro tempo su cui nel 1994 invita a riflettere Dani Karavan illustrando il senso del Memoriale Benjamin a Portbou.

“Mi è difficile pensare – affermava Karavan – di rappresentare la violenza attraverso la violenza. Nessun mezzo artistico può pensare di rivaleggiare con la spaventosa realtà di quell’epoca. (…) Se le persone verranno a Portbou e seguiranno i Passages, constatando di persona le difficoltà dell’attraversata, dell’ascensione. … I visitatori avranno modo di fare un’esperienza , che permetterà a ciascuno di tracciare la linea che congiunge la storia alla propria vita. Così, potrà nascere un luogo di meditazione dove ci si potrà ricordare di tutti gli uomini, dei quali Benjamin, in una certa maniera, simbolizza il destino”.

A Portbou convergono molte scene che costituiscono la genealogia di quell’istante. Sono quelle specifiche della vita materiale e concreta di Walter Benjamin quale ce la consegnano le sue lettere del 1939-1940. Quelle della rievocazione e della ricostruzione di chi l’accompagna in quelle a lunga traversata sulle montagna. Quelle di chi condivide con lui la condizione di prigioniero, improvvisamente privato di ogni diritto e che non riesce più a comprendere dove si collochino la linea dell’amicizia, quella della lealtà, quella della dignità di sé. Una condizione e una situazione che chiamano in causa molte cose tra cui due essenzialmente: la propria fragilità, lo spessore civile della società e del sistema politico che reclude. Nella nostra quotidianità ciò significa: il nostro sistema politico, il nostro linguaggio pubblico, le parole che usiamo, le paure che viviamo e l’incapacità di pensare una politica che vada oltre il respingimento. Una politica che assuma la responsabilità di ciò che accade a quelle vite, dopo. Il silenzio con cui si accompagna l’assenza di politica non è meno complice del silenzio che circonda le loro vite.      (David Bidussa)

25 marzo 2016 – Pasqua di sofferenza

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“Oggi la terra di nessuno è proprio dietro l’angolo, a pochi passi da qui. Tra la frontiera tedesca e quella ceca – mio Dio, che frontiera infame – un pezzetto di filo metallico tra i campi, una sbarra sulla strada, una fune tirata da un albero all’altro, basterebbe un bambino a smantellare tutto, è una frontiera che fa piangere … E in alcuni punti hanno lasciato tra le linee di confine un lembo di terra di nessuno. Dapprima l’esercito ceco si è ritirato da qui; poi sono arrivati gli eroi tedeschi (o ungheresi o polacchi )  che in questa striscia di terra di nessuno hanno spedito gli ebrei cacciati dai territori occupati. A costoro si sono aggiunti altri ebrei fuggiti da altri territori occupati della Cecoslovacchia. Alcuni sono arrivati perché era stata ordinata la loro espulsione, o perché temevano per i loro beni, altri perché avevano paura per i loro cari che ancora si trovavano nel territorio occupato. A costoro è stato concesso di attraversare il filo spinato cecoslovacco; ma non hanno potuto superare quello tedesco. E neanche gli è stato concesso di riattraversare il filo spinato per far ritorno in Cecoslovacchia. Sì, i fili spinati del 1938 sono robusti e resistenti.”

Da un articolo di Milena Jesenskà, la Milena di Franz Kafka, giornalista che l’amica e storica Anna Pizzuti ha postato su internet e ricordato a noi tutti che abbiamo la memoria corta.

Buona Pasqua a tutti gli amici del Fiume…

“Milena l’amica di Kafka” di Margarete Buber-Neumann, Adelphi 1986

11 febbraio 2016 – Costa di Rovigo Biblioteca “Manfred Buchaster” – Giorno del Ricordo 2016

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Nessuna pretesa di celebrazione, i morti, da qualsiasi parte, non devono essere oggetto di celebrazione, semmai di cordoglio. Come associazione culturale, Il Fiume ha sempre provato a  diradare le ombre e fare luce, fioca magari, ma pur sempre luce su fatti della storia più o meno vicina.

Non è facile parlare in modo obiettivo di certi temi. Temi che coinvolgono la storia delle persone e spesso vengono trattati in modo soggettivo. La lezione di Luciano è stata quella di provare in tutti i modi a capire e come amici e soci del Fiume abbiamo proseguito su questa strada. Piuttosto che celebrare o fare sensazione cerchiamo sempre di capire, e così è stato nella serata che abbiamo dedicato all’approfondimento del Giorno del Ricordo, e quindi delle“foibe”, grazie all’apporto di Federico Tenca Montini.

Da alcuni anni ci occupiamo di conoscere questo tema, e lo abbiamo fatto con la punta di diamante del professor Boris Pahor, con la studiosa Alessandra Kersevan, con il bravissimo Alessandro Cattunar e ora con un giovane storico Federico Tenca Montini che ha il merito, data la giovanissima età, di avvicinarsi al tema senza pregiudizi ideologici ma con la voglia di entrare nelle parti, da osservatore esterno quasi. Il suo lavoro di tesi, oggetto del libro che ha presentato, ha avuto il merito di analizzare l’uso delle foibe da parte di chi ne ha fatto di volta in volta, oltre che un metodo di eliminazione del nemico, anche un mezzo di propaganda delle proprie ragioni.

L'assessore Moira Ferrari con Chiara fabian e Federico Tenca Montini
L’assessore Moira Ferrari con Chiara fabian e Federico Tenca Montini

Il pubblico presente, molto attento, ha però rivelato oltre ai pregi anche i difetti di quello che l’informazione è abituata a confezionare. Alla fine la domanda di rito è stata “quante sono le vittime delle foibe?” A questa  Tenca Montini ha risposto sornione con un’altra domanda “quali vittime vi interessano?” Il desiderio di misurare e dare un’ordine alla grandezza di un evento in termini di vittime, rivela come alla fin fine non interessino i processi “che hanno portato a” , ma il numero che solo sembra dare la cifra dell’orrore. Il relativismo dell’approccio, non vuole assolutamente sminuire la portata ma proprio nell’analisi della specificità di momenti e protagonisti rendere giustizia ad un evento tanto tragico nella storia di quelle terre.

Abbiamo dovuto ribadire con forza che “capire” non è sinonimo di “giustificare”, ma il dubbio che abbiamo letto nei nostri interlocutori ci ha fatto capire che la strada della conoscenza è ancora lunga.

18 marzo 2016 – “Germania 1943. Grecia 2016” ?

Immaginate di vedere una foto in cui si contrappone la bambina col cappottino rosso del film Schindlerlist e una foto dei profughi in grecia in cui una bambina tenuta per mano da un adulto viene evidenziata perchè a colori rispetto al bianco e nero. Cosa possiamo dedurne? Quale effetto e riflessione vuole suscitare il grafico?

Cercherò di spiegare in breve quello che una brava e giovane studiosa, Fiorenza Loiacono,  ha espresso in un lungo e circostanziato articolo in un blog riprendendo, alcuni giorni fa, un precedente blog dalla pagina facebook dell’Internazionale (una rivista pregevole per impostazione ed intenti).     Il blog della testata “Internazionale” faceva un parallelo tra due foto per creare emozione accostando alla Shoah la tragedia dei profughi che attualmente fuggono dalla Siria e tentano di raggiungere un’Europa che alza dei muri e circonda i paesi di filo spinato (http://www.tpi.it/mondo/italia/pop-shoah-tragedia-profughi ).

La puntualizzazione di Fiorenza Loiacono è volta a stabilire le differenze tra le due immagini e, in primis, l’accostamento di una immagine filmica, creata apposta, nella parte superiore con una reale nella parte sottostante.

Altra critica della studiosa è all’errore secondo cui la prima immagine tratta dal film  “Shindler’s list”, è riferita alla Germania mentre  narra del ghetto di Cracovia in Polonia. Sembrano sottigliezze ma sono in realtà un modo superficiale di trattare argomenti molto delicati e complessi. La Shoah è diventata in questi anni di grande diffusione di studi, ma soprattutto di film e romanzi, un paradigma per spiegare tutto quello che di terribile compie l’umanità.

In realtà l’umanità ha commesso innumerevoli atti di crudeltà contro soggetti tra i più diversi e accanirsi a usare la Shoah per spiegare tutto il male, non fa che abbassare l’attenzione per la specificità che l’ha invece caratterizzata.

In sintesi Fiorenza Loiacono sostiene che “porre a confronto gli eventi e farlo con i mezzi appropriati non è in assoluto sbagliato, anzi può rivelarsi utile a comprenderli, purché se ne riconoscano le specificità e le differenze.

Se anche i profughi siriani non sono condotti alle camere a gas, non per questo la questione va liquidata brutalmente. Da un certo punto di vista, tale reazione di rifiuto potrebbe essere considerata un altro effetto collaterale di una memoria del genocidio ebraico condotta malamente, secondo un automatismo privo di pensiero ed elaborazione.

A furia di mostrare immagini di camere a gas, forni crematori e cataste di cadaveri, senza contestualizzarle e senza soffermarsi sui fattori che hanno portato a questo sterminio, si è contribuito forse ad innalzare la soglia di accettazione della disumanità: se i camini non si stagliano all’orizzonte non si fa nulla, non è pericoloso, non è quello”.

Con i ragazzi a Melara
Con i ragazzi a Melara

La accurata disamina di tanto approccio alla Shoah ci è servita per interrogaci sullo scopo e i modi in cui abbiamo condotto il nostro intervento nelle scuole e presso le istituzioni in occasione della giornata della Memoria e in quella del Ricordo.     Quando abbiamo presentato il nostro studio “…Siamo qui solo di passaggio” a Melara, a Castelmassa, a Ficarolo e recentemente a Stienta, lo abbiamo fatto parlando di storia e di vicende precise, mai slegate dalla documentazione e dalla testimonianza.    Abbiamo parlato di quello che è accaduto in quegli anni nella provincia di Rovigo, come in molte altre del Nord Italia, ma siamo anche stati pronti a rispondere a tutte le domande di bambini che volevano sapere, che erano curiosi di capire “perché” agli ebrei e in quel modo.

Non ci siamo mai sognati di dire che conoscere sia “evitare che accada ancora”, abbiamo spiegato che la violenza è anche oggi sotto gli occhi di tutti ma quello che dobbiamo evitare è che si ripetano i meccanismi che portano l’individuo a farsi massa non pensante. Speriamo di aver seminato e di aver fatto della Shoah uno specifico momento di riflessione sul sé e non solo sull’altro.

 

3 febbraio 2016 – ABBIAMO ASCOLTATO LE NOTE SALVATE ALLA SHOAH

Il professor Francesco Lotoro
Il professor Francesco Lotoro

Complice la fretta nell’organizzare un incontro da tempo cercato, non siamo riusciti a dare la giusta evidenza alla relazione che Francesco Lotoro, musicista e studioso pugliese conosciuto in tutto il mondo, ha regalato a noi e al Conservatorio Venezze di Rovigo la mattina del 3 febbraio scorso.

Su invito dell’Associazione il Fiume, il prof. Francesco Lotoro è riuscito a far tappa nel Polesine in mezzo ai suoi numerosi appuntamenti nazionali e internazionali. Reduce da un bel concerto a Tel Aviv ha potuto solo far intuire la mole di conoscenze musicali e storiche che ha accumulato in lunghi anni di lavoro appassionato sulla raccolta delle musiche della deportazione e dello sterminio.

Fortunati testimoni di una narrazione che avrebbe potuto durare giorni, sono stati i ragazzi delle terze della scuola media annessa al Conservatorio Venezze. Hanno presentato l’ospite il Presidente del Conservatorio prof. Fausto Merchiori e il prof. Giuseppe Fagnocchi. Il grande lavoro archivistico del maestro di Barletta, fondatore dell’ Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria, lo ha portato alla raccolta di oltre 5.000 brani prodotti nelle condizioni di reclusione più diverse. Il lavoro iniziato con la raccolta delle musiche dei lager nazisti si è, negli anni esteso a tutte le espressioni musicali prodotte in cattività nei campi e lager dei fronti della II Guerra Mondiale e non sembra aver fine.

Giuseppe Fagnocco, Francesco Lotoro e Fausto Merchiori
Giuseppe Fagnocco, Francesco Lotoro e Fausto Merchiori

Al pubblico, reso attento anche dalle esecuzioni di alcuni brani effettuata dal musicista grazie alla presenza degli strumenti nel salone del Conservatorio, Francesco Lotoro ha raccontato di come la musica poteva essere un mezzo per avere salva la vita entrando nelle orchestre che caratterizzarono la vita nei lager, ma poteva anche garantire solo un prolungamento di una vita destinata comunque a finire tragicamente. Era il caso che stabiliva se si doveva vivere o morire in quelle condizioni ma di sicuro la musica serviva per una sorta di consolazione e per rendere la vita meno drammatica. Lotoro 2

L’incontro è terminato troppo presto lasciando in tutti i presenti la voglia di ascoltare ancora le tante storie di sommersi e di salvati che lo studioso aveva da raccontare e che speriamo saranno preservati  per il futuro ritorno di un ospite tanto importante.