Il 25 aprile è anche la ricerca di valori diversi da attribuire a questa data.
Grazie alla volontà dell’Amministrazione di Costa di Rovigo, sindaco Bombonato e assessore Ferrari in testa e con la giornalista Serena Uccello, presentando il libro “Corruzione” (l’intervista a Piergiorgio Baita ingegnere e testimone del sistema del malaffare che ha ruotato attorno al MOSE) abbiamo provato ad interrogarci sul senso di essere cittadini di un paese che è oppresso dalla corruzione. La corruzione è uno dei mali maggiori dei paesi sottosviluppati ma anche di quelli come l’Italia che non si possono certo definire sottosviluppati.
Nel nostro incontro orchestrato dal Luca Gigli del Gazzettino di Rovigo, abbiamo parlato di corruzione dei governi regionali, quelli che paradossalmente dovrebbero essere più vicini ai cittadini e lontani da “Roma ladrona”, ed invece rubano di più e meglio. Il paradosso a nostro avviso è che si vuole l’autonomia da uno Stato centrale che è la vacca da mungere dei governatori e dei piccoli e grandi funzionari degli uffici regionali oltre che dei partiti regionali!
Sarebbe bello capire cosa porterà di buono l’autonomia regionale tanto decantata, forse un minore controllo? Minori trasferimenti allo Stato? E allora chi fornirà i congrui mucchi di denaro che servono al sistema della corruzione?
Luca Gigli e Serena Uccello hanno conversato sul merito della mala-gestione delle opere pubbliche che anzichè farci onore, come un tempo, sono ricettacolo dei nostri peggiori difetti.
Eppure la giornalista è partita dal senso di grandiosità di un’opera come il MOSE ( MOdulo Sperimentale Elettromeccanico ossia il sistema di dighe mobili a protezione di Venezia dall’acqua alta) , frutto dell’intelligenza e dell’applicazione di tecnici convinti della bontà del loro lavoro a partire proprio da quell’ingegner Baita che ha fornito tutti i dati per il libro-intervista.
Dagli interventi del pubblico presente è emersa la stanchezza per un sistema che ha contagiato la coscienza nazionale e si ritrova in tutti i gangli della vita civile, dal piccolo artigiano che ricarica sul prezzo di tutti i materiali, al funzionario che deve dare un’autorizzazione, al tecnico che assicura di poter far avere un’autorizzazioni altrimenti impossibile, al Governatore della Regione. Come Associazione il Fiume abbiamo formulato la domanda retorica, se fosse stato tanto difficile realizzare un’opera grandiosa, spendendo il giusto in remunerazioni delle ditte e dei lavoratori coinvolti, con l’attenzione ad un bene ineguagliabile come la Laguna Veneta e con grande profitto dei veneziani e di tutto il paese? Evidentemente per l’Italia sarebbe stato ed è difficile lavorare in questi termini.
Un quadro sconsolante ed un terreno di battaglia per cittadini e comitati.
Moira Ferrari, Chiara Fabian, il sindaco Antonio Bombonato, Serena Uccello e Luca Gigli
Sono stata invitata dagli amici dell’ANPI di Stienta (Ro) ad intervenire in qualità di presidente dell’Associazione il Fiume per ricordare il 72° anniversario della fine della guerra e della liberazione, una guerra lunga e tragica per i milioni di morti in tutto il mondo.
L’Associazione il Fiume è entrata nella grande storia per raccontarne aspetti in apparenza minori ed estranei ma in realtà strettamente intrecciati con il vissuto di questi luoghi. Attraverso una lunga ricerca durata dieci anni abbiamo documentato come il fascismo abbia supportato prima con l’ideologia e poi con atti concreti, la persecuzione degli ebrei stranieri, giunti come profughi anche nei piccoli paesi della provincia italiana dalle nazioni europee in guerra. Accanto ai persecutori, abbiamo scoperto anche le storie di molti italiani solidali che hanno salvato e protetto ebrei, senza chiedere in cambio nulla, in un puro e semplice esercizio di umanità. Abbiamo svelato lati ancora oscuri di una storia che gli italiani hanno liquidato velocemente per paura di doverci fare i conti, ma che è molto utile per spiegare alcuni concetti fondamentali.
Cippi e lapidi punteggiano la campagna del Polesine a ricordo delle uccisioni perpetrate dai nazisti in ritirata alla fine della guerra
Oggi celebriamo il 25 aprile, una delle più importanti ma anche sofferte date del calendario civile, mai condivisa da tutte le parti politiche perché il nostro paese è giunto all’atto finale lacerato da una guerra fratricida. Proprio per la difficoltà di vivere fino in fondo la “com-mozione” in quanto “muovere insieme” di emozioni da parte di un popolo, abbiamo maturato l’importanza di segnare con cerimonie ma soprattutto con la conoscenza la memoria di questa data. Senza conoscenza si cade nella polemica come quando negli ultimi anni si è tentato di metter sullo stesso piano vittime e carnefici. Solo la conoscenza della storia può salvare dalla confusione che si può fare della storia. Tuttavia non è tra adulti e ultrasessantenni che dobbiamo raccontarci da quali atrocità è nata l’Europa moderna e quale è stato il contributo della nostra Resistenza. Nostro dovere è, invece, quello di trasmettere ai ragazzi che sono nati nel secondo millennio, la conoscenza di quanto è successo in queste date e che cosa queste date rappresentano per il nostro paese.
Ho avuto la fortuna di essere stata chiamata ad insegnare in questi ultimi anni e spesso ne approfitto per far domande ai ragazzi. Quando chiedo “ma voi sapete cosa si celebra il 25 aprile?” le risposte sono le più diverse. Alcuni non hanno la minima idea di cosa si celebri ma sono contenti di avere un giorno libero da scuola. Qualcuno ricorda vagamente che si festeggia la “liberazione” ma poi non sa da chi o da che cosa. Altri rispondono che “ci siamo liberati dai tedeschi” ed è la mezza verità di chi, almeno, ha avuto dei maestri oppure proviene da una famiglia che ha vissuto la storia sulla propria pelle.
Moltissimi ragazzi provengono da nazioni e culture diverse, e sono stati sradicati fin da piccoli dai loro paesi, ma saranno nostri concittadini adulti fra qualche anno e a loro stiamo insegnando la nostra storia … per questo dobbiamo farlo bene.
Tutti questi ragazzi entreranno a pieno titolo in una società europea in cui avranno molti doveri e anche molti diritti, ma se sapranno come li abbiamo ottenuti forse sarà più facile per loro esserne dei garanti. Per tutti loro dobbiamo ribadire che Il 25 aprile si festeggia la liberazione dell’Italia dalla dittatura nazi-fascista, ma soprattutto dobbiamo spiegare in cosa consiste una dittatura.
Per noi che abbiamo un bagaglio di memoria e abbiamo ascoltato dalla voce di chi ha vissuto in prima persona le vicende del secondo conflitto mondiale, è facile capire la gioia e l’orgoglio di questa ricorrenza, ma sono i ragazzi di oggi, i nativi digitali, che vanno portati in piazza e ai quali bisogna spiegare perché il nostro paese e il resto dell’Europa avevano il cuore pieno di gioia il 25 aprile del 1945!
Non ci sono quasi più i giovani partigiani di allora a raccontarlo, così come si stanno spegnendo i testimoni della shoah e stiamo perdendo la memoria col rischio che, senza testimoni, una storia, anche se scritta, venga travisata o addirittura negata.
Per questo dovremo attrezzarci molto bene per il futuro e trovare mille modi per spiegare ai ragazzi, ad esempio, che a Stienta e nel Polesine, nonostante i fascisti e i nazisti controllassero il territorio con migliaia di soldati, c’erano uomini, donne e ragazzi che nel silenzio e nella paura ma con coraggio, preparavano azioni, si coordinavano con le truppe alleate, nascondevano soldati paracadutati, raccoglievano armi e , certo, perdevano anche le loro giovani vite per contribuire a cambiare lo stato delle cose.
Primo Levi, scrittore, ebreo e partigiano
“Il fascismo non era altro che la consacrazione del privilegio e della disuguaglianza e il nazismo in Germania è stato la metastasi di un tumore che era iniziato in Italia” sono parole di Primo Levi, perseguitato come partigiano e come ebreo e quindi doppiamente titolato a parlare.
Ma come riconoscere, oggi, il germe di una dittatura? Quale “resistenza ” è necessaria oggi che siamo in una democrazia e sembra che i nostri privilegi siano minacciati solo dalla crisi economica e da qualche migliaio di profughi?
A che serve commemorare e ricordare se la memoria non diventa esercizio attivo per riconoscere i mali che se trascurati possono diventare metastasi? Sempre Primo Levi, che era uno scienziato abituato ad analizzare la materia fino al più piccolo degli atomi ma da scrittore riusciva anche ad avere un quadro d’insieme, diceva che “là dove c’è un verbo che dice “non siamo tutti uguali, alcuni hanno diritti e altri no”, alla fine di tutto questo c’è il lager”.
E allora la commemorazione deve essere accompagnata dal mettere in guardia che la libertà non è scontata, che anche un blog si può oscurare, che anche i giornalisti possono essere incarcerati per non scrivere o possono essere comprati per non denunciare.
“La libertà è come l’aria ci si accorge quanto vale quando comincia a mancare” diceva Calamandrei, ma per insegnarne il valore dobbiamo far capire che l’unica garanzia per la libertà è l’esercizio della democrazia attraverso la partecipazione (la più bella liaison inventata da un cantautore!).
Accanto alla posa della corona nei cippi delle stragi dobbiamo spiegare che le scelte sono sempre individuali e ciascuno è libero di scegliere di dire “no” ad un comando ingiusto, “no” ad una menzogna fatta passare per verità, “no” ad una mazzetta per ottenere un favore. Se come ha detto ancora Calamandrei“La libertà è condizione ineliminabile della legalità; dove non vi è libertà non può esservi legalità” allora c’è da chiedersi se non dobbiamo ancora conquistarla la libertà visto che la legalità è ancora uno dei nostri problemi più gravi e forse anche oggi abbiamo dei “partigiani” che spendono la loro vita per garantire la legalità. Non a caso domani sera l’Amministrazione di Costa di Rovigo e l’Associazione il Fiume ospiteranno la giornalista Serena Uccello che presenterà un libro dal titolo “Corruzione” che ricostruisce l’architettura della de-costruzione del nostro paese. Un tema è tra i più importanti nella nostra attualità. Ecco forse il 25 aprile deve essere celebrazione di chi ha combattuto per dire “no” a ingiustizia, privilegi al diritto del più forte, ma anche supporto oggi a chi ancora combatte per dire il proprio “no” alle ingiustizie, alla sopraffazione, alla discriminazione di ogni tipo, alla menzogna passata per verità ed al razzismo. E mi pare che la lotta sia ancora dura
Prima ancora che si spenga l’eco delle molteplici attività legate al 27 gennaio data in cui ogni anno si ricorda lo sterminio di milioni di ebrei uccisi dal nazi-fascismo, abbiamo avuto modo di presenziare a due incontri di riflessione sul senso della giornata.
Gadi Luzzato, storico e direttore del CDEC ne ha parlato sabato 28 gennaio a San Martino di Venezze (RO), mentre George Bensoussan, tra i maggiori storici francesi della Shoah, ne ha discusso oggi a Rimini ad un seminario organizzato da Laura Fontana, responsabile italiana del Memoriàle de la Shoah di Parigi.
In entrambe le occasioni si è confermato come “celebrare” milioni di morti non abbia nessun senso, come non è di nessuna utilità suscitare emozioni quando si parla di sterminio, tanto più quando in questo quadro, ormai, si tende a inserire quante più categorie possibili sminuendone, in questo modo, il significato. “Se tutto è Shoah, allora niente è Shoah“, afferma Bensoussan.
Gadi Luzzato a San Martino di Venezze
Trovarsi a discutere sul significato del giorno della memoria quando ancora non si è potuto fermarsi a riflettere sembra un pò strano. Vogliamo, perciò, elencare e ricapitolare quanto e cosa abbiamo fatto in queste due lunghe e sofferte settimane.
Come Associazione Il Fiume abbiamo offerto alle scuole e alle istituzioni che ci hanno coinvolto, una seria organizzazione di momenti di riflessione sulla “shoah”, consapevoli che non si può metter nelle teste dei ragazzi in un colpo solo, tutta la storia della formazione del substrato che ha generato questa catastrofe dell’umanità.
A dire il vero, nella piccola scuola media di provincia di Pettorazza Grimani (RO), alla presenza di circa 50 ragazzi e con tre ore di tempo, abbiamo provato a proporre un excursus storico generale intervallato da spezzoni video di testimonianze, più che dell’orrore dei campi.
In genere, abbiamo preferito concentrarci su alcuni degli aspetti per approfondirli, specie nelle scuole superiori. Abbiamo parlato del Porrajmos a Ferrara agli studenti del Liceo Ariosto con Eva Rizzin che si occupa specificamente del genocidio di Rom e Sinti. Abbiamo trattato con i ragazzi delle medie di Costa di Rovigo (RO) lo stesso tema anche se adattato al livello degli studenti, e comunque tracciando analogie e differenze tra le culture di ebrei e rom.
Il sindaco di Costa Antonio Bombonato ed Eva Rizzin
Con i ragazzi delle medie di Ficarolo e Stienta (RO) abbiamo allargato il cerchio parlando della militarizzazione delle giovani generazioni durante il fascismo e di razzismo coloniale e poi biologico nei confronti degli ebrei valendoci di un esperto, lo storico Gianluca Gabrielli.
Gianluca Gabrielli a Stienta
Quest’anno ci siamo occupati degli IMI, Internati Militari Italiani che con la “shoah” c’entrano perché ne hanno condiviso la sorte nei campi di concentramento di Polonia e Germania, ma rappresentano un capitolo a parte che la legge e la storia, comunque, impongono di ricordare.
Con gli Istituti Comprensivi di Ariano Polesine e Adria Uno abbiamo collaborato ad un concerto-storico dal titolo “186 gradini e altre storie… Voci della shoah” che ha avuto molta presa sugli studenti e sul pubblico presente ed è servito, grazie alla preparazione e passione dei docenti, a parlare di cultura ebraica, non solo di sterminio.
Abbiamo presentato agli studenti della Scuola media “Bonifacio” di Rovigo il tema della “shoah” degli ebrei italiani e di quelli stranieri, fermati e deportati dall’Italia, con un passaggio sulle storie locali di salvezza e di assassinio.
Chiara Fabian con i ragazzi della media Bonifacio di Rovigo
Ci siamo anche prestati alla commemorazione ufficiale della Provincia di Rovigo, atto istituzionale, meno utile forse, ma comunque doveroso, fornendo l’intervista filmata fatta ad Arduino Nali, cittadino di Adria deportato e sopravvissuto a Mauthausen- Gusen.
Alla fine di tutto, che per noi non è una fine, pensiamo di aver dato un contributo alla conoscenza dei giovani senza ricorrere a nessun film anzi rendendo forse più facile collocare i film che i ragazzi hanno visto e che vedranno, nel contesto di eventi raccontati in successione storica. Il pubblico eterogeneo delle classi ormai multiculturali ha ascoltato attento. Nessun rifiuto o contestazione di quelli che sono stati fatti incontestabili e ben argomentati. Non abbiamo avuto titoloni sui giornali, né particolari ringraziamenti ma non era questo lo scopo.
Con alcune amministrazioni pubbliche lavoriamo da tempo e soprattutto “per tempo”, cercando di dare una consequenzialità dei temi anno per anno, esempio su tutte, Costa di Rovigo, un piccolissimo borgo che su questi temi ha fatto grandi cose in questi anni di collaborazione. Con altre, Gavello e la sua Biblioteca, abbiamo iniziato un rapporto con la presentazione del libro “Siamo qui solo di passaggio” che speriamo continui.
La copertina del libro “…Siamo solo di passaggio”sull’internamento libero in Polesine
Dal dibattito in corso su “giorno della Memoria si o no” abbiamo ricevuto spunti per perfezionare una impostazione che pensiamo sia, nella sostanza, abbastanza corretta e che ci fa affrontare il tema dal punto di vista di come si sono create le condizione perché tutto avvenga. Non ci sogniamo mai di dire ai ragazzi “state attenti e imparate perché questo non accada mai più”, piuttosto usiamo gli esempi dei “giusti” per far capire che la responsabilità e le scelte personali sono ciò che può fare la differenza. Allora come oggi, e su questo punto un parallelo con l’attualità ci sentiamo di farlo, convinti che non sia “banalizzazione della Shoah” bensì un richiamo alla specificità umana della violenza col solo scopo del potere e dello sfruttamento di altri esseri umani.
Che dire che non sia stato già detto sul Natale, sul mondo in guerra su tutto il bene o il male che ci circonda e che nel loro scorrere ininterrotto costituiscono l’essenza della vita?
Niente.
“Chi ha qualcosa da dire faccia un passo avanti e taccia! ”
Questo aforisma di Karl Kraus che monitorava la fine di un epoca, mi chiude sempre la bocca, mi paralizza la mano che preme i tasti…
Che dire……
Facciamo del nostro meglio per non peggiorare il mondo, ecco, ricordiamolo almeno una volta l’anno.
Auguri amici!
Crediamo che lo storico e sociologo David Bidussa non ce ne vorrà se riprendiamo un suo breve articolo dello scorso settembre per riflettere su una figura di intellettuale tedesco anche al di fuori delle date e degli anniversari. Una riflessione che dalla vicenda dello scrittore si proietta sul nostro presente.
Scriveva Bidussa nel suo blog:
“Sabato 26 settembre 2015 ricorreva il settantacinquesimo anniversario del giorno in cui sul confine franco-spagnolo Walter Benjamin sentendosi un uomo braccato che nessuno era disposto ad accogliere, temendo di essere oggetto di respingimento, ovvero di essere rigettato indietro nelle mani dei suoi possibili carnefici, insomma sentendosi sfuggire tra le mani l’eventualità di poter vivere libero, decise di porre fine alla sua vita.
Molti hanno ricordato la sua genialità, i suoi scritti, il suo essere una figura intellettuale che non riuscì a parlare al suo tempo. Chi ha parlato della scena e delle circostanze di quella morte l’ha proposta come “compimento” coerente di quella vita. Non è improprio ma con ciò si perde si tende a mettere in secondo piano il fatto che esse costituiscono il testo più saliente di questo nostro tempo. Il 25 settembre 1940, Walter Benjamin, in fuga dai nazisti e nel tentativo di emigrare in America, giunge a Portbou, luogo di passaggio alla frontiera franco-spagnola. La Gestapo ha da tempo requisito la sua casa a Parigi e sequestrato la sua biblioteca. Con sé, in quella fuga disperata, ormai privato della nazionalità tedesca fin dal 1939, porta una borsa di cuoio nero che contiene il suo ultimo manoscritto, ancora più importante della morfina che gli sarebbe servita per fuggire via dalla vita, se i nazisti l’ avessero raggiunto, come dice a Lisa Fittko che guida il gruppo dei fuggitivi.
Benjamin, pur essendo cardiopatico, accetta di percorrere il sentiero attraverso le montagne, dove sarebbe stato possibile, anche in assenza del visto di uscita dalla Francia (che aveva promesso l’estradizione verso il Terzo Reich dei rifugiati provenienti dalla Germania), raggiungere la frontiera spagnola. Ma quel giorno la Spagna aveva chiuso il suo confine e il piccolo gruppo di profughi deve tornare indietro. Viene offerta una dilazione di un giorno e nella notte Benjamin, la notte del 25 settembre, scrive un’ultima lettera indirizzata ad Adorno: “In una situazione senza uscita, non ho altra scelta se non quella di farla finita”. Poco dopo ingerisce la morfina che ha con sé e muore. È la sera del 26 settembre. Quella stessa notte arriva il consenso all’ingresso in Spagna. Gli altri passano. Di quell’istante si può proporre un’anatomia e dunque ripetere con Hannah Arendt che uccidersi in condizioni drammatiche quando la propria vita è in mano ai tuoi carnefici, o rischia di divenire loro preda, corrisponde a un atto di libertà. Ovvero è la dimostrazione che ancora si possiede una personalità e dunque si è ancora proprietari del proprio corpo.
Non credo che fosse la condizione in cui si trovò Benjamin. La sua era invece la dimensione del fuggitivo o del profugo, (…). Una condizione che rappresenta la genealogia delle molte scene che riempiono la nostra quotidianità. Per questo vale la pena discuterne. Proprio perché riflettere intorno a quella morte non è erudizione.
Abbiamo impiegato molto a prendere confidenza con la scena di Portbou. Tuttavia, quando l’abbiamo fatto, abbiamo tentato di rendere quella scena la più innocente possibile. Intorno a quello scenario si sono consumati molti malintesi, alcune situazioni incongrue e il meglio e il peggio dell’Europa di allora è emerso. In breve: la catena degli aiuti e l’indifferenza; il doppio gioco e la freddezza burocratica; il senso degli affari – una volta intuita la rilevanza del personaggio Benjamin – e il comportamento della popolazione locale, dall’albergatore – che emetterà una fattura di cinque notti di pernottamento, quando dal 25 settembre sera è chiaro che al massimo si tratterà di una notte – agli addetti del cimitero che, come ricorda Scholem, capito l’affare, mostrano a tutti una tomba falsa.
Una storia senza fine quella di Walter Benjamin, non solo quella della sua persona ma anche quella del suo corpo (che comunque non si trova più). Una storia in cui si intrecciano e si sovrappongono molte cose: i resti di ciò che c’era lì’ – in quella stanza e nel paese quella notte – e che costituiscono la memoria del luogo; il processo successivo di musealizzazione, di storia ricostruita, di “memoria inventata” che costituiscono la costruzione di Portbou come “luogo della memoria”; l’edificazione del memoriale che Dani Karavan ha dedicato a Benjamin. Portbou a lungo è stato solo un punto dove la disperazione di alcuni suoi amici (Adorno, Hannah Arendt, Gershom Scholem) ha provato a misurarsi con la combinazione assurda di caso, di condizionamento della storia e profilo della personalità, come ebbe a sottolineare Hannah Arendt. Poi però qualcosa è cambiato.
Che cosa ci affascina, dopo lungo silenzio, nella scena di Portbou, una delle tante “Termopili del XX secolo”dove sono caduti vittime della barbarie combattenti solitari?
( … ) L’effetto è che la coscienza europea rovescia in merito ciò che è essenzialmente un buco nero della sua storia e nella storia d’Europa: il totalitarismo nazista, prima ancora di diventare una macchina industriale di sterminio, ha espulso dal territorio tedesco circa mezzo milione di ebrei e li ha in gran parte, con traversie e spesso con grandi malesseri, spinti al di là dell’Oceano, spesso con l’effetto di aver contribuito al consolidamento del primato intellettuale degli Stati Uniti nel secondo dopoguerra. Portbou oltre l’attimo di disperazione sarebbe perciò tutto questo. Il segno di ciò che l’Europa poteva essere, della sua capacità di essere se non fosse incorsa in quella parentesi dei totalitarismi. Con una piroetta logica l’Europa, coglie “l’opportunità Portbou” celebrando se stessa contro la sua storia e riducendo i suoi totalitarismi a un incidente di percorso. La conseguenza è duplice: autoassolversi e evitare di farsi delle domande, non solo su allora, ma soprattutto su oggi.
il Memoriale di Portbou
La scena di Portbou chiama altre scene. Sono quelle degli “uomini in fuga “ del nostro tempo su cui nel 1994 invita a riflettere Dani Karavan illustrando il senso del Memoriale Benjamin a Portbou.
“Mi è difficile pensare – affermava Karavan – di rappresentare la violenza attraverso la violenza. Nessun mezzo artistico può pensare di rivaleggiare con la spaventosa realtà di quell’epoca. (…) Se le persone verranno a Portbou e seguiranno i Passages, constatando di persona le difficoltà dell’attraversata, dell’ascensione. … I visitatori avranno modo di fare un’esperienza , che permetterà a ciascuno di tracciare la linea che congiunge la storia alla propria vita. Così, potrà nascere un luogo di meditazione dove ci si potrà ricordare di tutti gli uomini, dei quali Benjamin, in una certa maniera, simbolizza il destino”.
A Portbou convergono molte scene che costituiscono la genealogia di quell’istante. Sono quelle specifiche della vita materiale e concreta di Walter Benjamin quale ce la consegnano le sue lettere del 1939-1940. Quelle della rievocazione e della ricostruzione di chi l’accompagna in quelle a lunga traversata sulle montagna. Quelle di chi condivide con lui la condizione di prigioniero, improvvisamente privato di ogni diritto e che non riesce più a comprendere dove si collochino la linea dell’amicizia, quella della lealtà, quella della dignità di sé. Una condizione e una situazione che chiamano in causa molte cose tra cui due essenzialmente: la propria fragilità, lo spessore civile della società e del sistema politico che reclude. Nella nostra quotidianità ciò significa: il nostro sistema politico, il nostro linguaggio pubblico, le parole che usiamo, le paure che viviamo e l’incapacità di pensare una politica che vada oltre il respingimento. Una politica che assuma la responsabilità di ciò che accade a quelle vite, dopo. Il silenzio con cui si accompagna l’assenza di politica non è meno complice del silenzio che circonda le loro vite. (David Bidussa)