Boris Pahor 97 anni, eleganza e sobrietà fatta persona, cultura approfondita d’altri tempi, ci aspetta puntuale alle 12.00 nella sua casa di Trieste per un’uscita in compagnia, che con lui si trasforma in una lezione di storia, straordinaria ed incontrovertibile.
Il professore, che “Il Fiume” ha ospitato ormai più volte a presentare i suoi libri, ha accettato di buon grado la proposta di una colazione in terra slovena, dove difronte ad una iota carsica e ad un buon bicchiere di terrano, il pasto si prolunga fino al tardo pomeriggio in virtù del soffiare della bora mista a neve che flagella il Carso e della bontà della conversazione.
Certo lo scrittore sloveno non è simpatico a tutti, la ricerca su internet mette subito in risalto come gruppi di detrattori si sentano titolari di una verità opposta a quella vissuta sulla sua pelle dallo scrittore, oggi famoso per il suo capolavoro “Necropoli”, e molti altri libri meno noti ma altrettanto pieni di valore letterario.
Quello che non va giù a molti ri-scrittori della storia, è che l’anziano esponente della cultura slovena denunci la fascistizzazione della Venezia Giulia negli anni 20, fatta di persecuzioni ben descritte nei suoi libri, volta ad italianizzare un territorio che aveva molto di sloveno, molto di asburgico e poco di italiano.
Boris Pahor dall’alto della ricchezza della sua vita vissuta, non può soffermarsi sulle critiche, le percosse subite al suo arresto come attivista sloveno dai fascisti, sono un ricordo vivo nonostante siano trascorsi molti anni e molti colpi di spugna alla memoria collettiva.
Il professore spezza piccoli bocconi di pane e li spalma di una punta di patè di fegato, non disdegna un po’ di vino, ma ama soprattutto le trattorie in cui si può avere del brodo!
Prende volentieri del brodo caldo e vista la giornata ne ha tutte le ragioni, così tra un cucchiaio e l’altro ci racconta cose note, come dopo gli studi e la maturità in seminario a Capodistria, a 26 anni venga inviato in Libia da soldato italiano, come in Africa debba cogliere l’occasione di rifare la maturità, invalidata dalla sua uscita dal seminario, in una Bengasi bombardata dagli inglesi ogni giorno alla stessa ora. Le vicende sono note ai suoi lettori e si trovano soprattutto nell’ultimo libro “Piazza Oberdan”, ma delle parole del professore, ci piace cogliere i dettagli e le notazioni più intime.
Ci piace gustare la comicità amara delle descrizioni dell’esercito italiano e del suo equipaggiamento “…mi capitò di vedere dei cannoni con la canna storta da chissà quali esplosioni, e mi chiedevo a chi avrebbero potuto sparare!
Per non parlare delle divise, “..inglesi e tedeschi in pantaloni corti di cotone e noi in pantaloni lunghi di panno che, quando qualche alto in grado veniva a passar in rassegna le truppe, poi si tornava alle tende zuppi di sudore!”
Orgoglioso di aver rifatto la maturità classica discutendo con il superiore esaminatore della commissione, da pari “come due uomini di cultura”, ricorda il ritorno in Italia con una nave ospedale dopo la vittoria degli inglesi in Nordafrica, e poi l’impegno a continuare gli studi di letteratura italiana all’università di Padova, nonostante la guerra e fino quasi alla laurea.
Racconta di come dovette liberarsi della valigetta coi libri di testo, greco e latino, gettandola in mare, obbligato da un superiore, ma svelto a salvarne una parte riempiendosi le tasche.
I camerieri sloveni servono senza metter fretta il minuto signore di 97 anni che, con un po’ di disagio, deve pranzare con la testa coperta dalla coppola, alla sua età un alito di vento può essere fatale e, consapevoli che è una gloria letteraria nazionale, lo trattano con riguardo particolare ma non appiccicoso.
Nel racconto del professore c’è l’amarezza di chi ha dovuto sostituire la propria cultura con un’altra e ha vissuto la ribellione del popolo sloveno, dopo i crimini commessi dagli italiani e dai nazisti, ma senza odio e senza quel sentimento anti italiano temuto da chi non presta attenzione all’umanità comune dei popoli, ma ne strumentalizza i tratti nazionali.
Ne è riprova la sua pietà per i commilitoni fascisti che considera poveri diavoli, come lui costretti ad un’impresa inutile, e che nell’arida solitudine del deserto, gli fanno venire in mente i lanzichenecchi della poesia Sant’Ambrogio del Giusti!
Il tempo passa e scende il buio tra le colline, la neve si tramuta in pioggia sferzante ma c’è ancora spazio per un po’ di dolce, la cui scelta da il là al ricordo della “putizza” che la moglie Radoslava gli preparava in maniera difficilmente imitabile.
Pahor non si atteggia a giudice dei comportamenti degli altri anzi, si biasima per non aver avuto il coraggio di andar da subito con i partigiani, non ha mai pensato di essere un eroe, era ed è un uomo comune con la facoltà di pensare e chiedersi il perché dell’odio che genera odio, della violenza su inermi, donne e bambini.
Gli piace raccontare che lo studio delle lingue ( oltre allo sloveno e al croato, l’italiano da triestino, il tedesco al seminario di Capodistria ed il francese all’università di Padova con Diego Valeri), in fondo gli ha salvato la vita, garantendogli un posto da interprete nel suo reggimento, poi nel campo di concentramento in cui aiutò il medico norvegese a “curare” gli stremati schiavi di Hitler.
Un caffè, un po’ d’acqua, due biscotti secchi, ancora si potrebbe continuare ma il professore è preoccupato del rientro a casa nella ripida salita di Contovello, così ci si muove e si raggiunge Trieste attraversando una frontiera che ancora non è stata smantellata e fa da filtro, tra un di qua ed un di la che oggi non è chiaro, ma nella storia delle terre di confine forse non lo è mai stato!
Lo accompagnamo fin sulla porta di casa, accomiatandoci con gratitudine per la bella giornata, tra il vento e la pioggia che non hanno spaventato un grande signore, in doppiopetto grigio, con un paletot elegante ma forse un po’ leggero per l’inverno ormai giunto.