Le ricerche sulla Shoah sono in pieno sviluppo ed evoluzione. Esiste una specificità che contraddistingue gli ebrei in quanto a loro era diretto il progetto genocidiario studiato e applicato su basi “scientifiche”.
La “scienza esatta persuasa allo sterminio”1 aveva come obiettivo la cancellazione della “razza ebraica” ma non trascurò altre comunità o categoie sociali che risultavano un ostacolo alla purificazione sociale del III Reich.
Molti apartenenti a queste categorie si sentono defraudati di un diritto di riconoscimento se non si cita la loro esperienza nel quadro delle commemorazioni del giorno della Memoria, così i partigiani sloveni rappresentati dal professor Boris Pahor, o le comunità rom e sinti che vorrebbero l’estensione della motivazione della legge istitutiva della ricorrenza anche alle loro sofferenze.
Nel riconoscimento legittimo di questi diritti, come Associazione abbiamo sempre cercato di prestar attenzione a tutte le voci dalla shoah attraverso il contributo di ricercatori o documenti di grande valore.
L’inclusione nella Comunità Europea dei paesi dell’est ha reso possibile negli ultimi decenni ricerche in archivi un tempo preclusi e questo ha gettato nuova luce su alcuni temi stimolando ulteriori ricerche. Grazie, inoltre, ai finanziamenti europei del settore “Cittadinanza attiva”, molti paesi stanno svolgendo studi non solo sul genocidio degli ebrei ma anche su quello delle comunità rom, sinti, manuche, tzigauner, camminanti, in una parola sugli “zingari” che popolavano tutta l’Europa prima che i nazionalismi dividessero nettamente gli stati creando le frontiere e i passaporti.
Queste comunità strette su base familiare, erano difficilmente controllabili ed irregimentabili, pur essendo “ariani” per la loro origine indoeuropea e quindi più puri degli stessi “germani”, gli zingari erano destabilizzanti per il “nuovo ordine” hitleriano. Su di loro la polizia politica tedesca sperimentò i sistemi di discriminazione e identificazione selettiva. I nazisti crearono la “socialità asociale”2 ossia introdussero la categoria sociale degli asociali.
Ogni paese contribuì a discriminarli, prima, e a perseguitarli dando man forte ai Nazisti. I campi di concentramento furono il gradino che seguì la prima fase, quella della identificazione e schedatura. Anche in Italia gli ordini di polizia ai Prefetti e ai Questori raccomandavano una particolare attenzione alle “carovane di zingari” che diffondevano il comunismo (solo perchè provenivano dall’est Europa) e potevano esercitare lo spionaggio a favore dei nemici.
A Berra (Fe) un piccolo paese del ferrarese, situato sulla riva destra del fiume Po, c’era un campo di concentramento specifico per zingari e anche l’Italia ha avuto un ruolo nella persecuzione delle comunità rom e sinti presenti nel suo territorio.
Ne parleremo diffusamente con gli storici Luca Bravi ed Eva Rizzin, da anni al lavoro su questo tema per le rispettive Università e per la Comunità europea, nelle sedi che seguono:
Venerdì 20 Gennaio 2017 – Ferrara – Aula Magna Liceo Ariosto – ore 11.00 – “Porrajmos Il progetto di genocidio di un popolo scomodo” con il prof. Roberto Dall’Olio e l’Associazione Il Fiume, gli storici Luca Bravi (Università di Firenze) ed Eva Rizzin (Università di Verona) presenterànno le storie dell’internamento e della deportazione ad Auschwitz delle famiglie di Rom e Sinti italiane.
Costa di Rovigo (Ro) – Biblioteca “M. Buchaster” -Piazza San Rocco 17- ore 20.30 – incontro pubblico con gli storici sul tema dell’internamento dei Rom italiani
Lunedì 23 Gennaio 2017 – Scuola media di Costa di Rovigo – ore 11.00 – “Porrajmos. Il progetto di genocidio di un popolo scomodo”
2 Henriette Assèo, docente della HESS Ecole des Hautes études en sciences sociales, conferenza su “La sorte degli zingari europei” , Parigi , Aprile 2012, Memoriale de la Shoah
Che dire che non sia stato già detto sul Natale, sul mondo in guerra su tutto il bene o il male che ci circonda e che nel loro scorrere ininterrotto costituiscono l’essenza della vita?
Niente.
“Chi ha qualcosa da dire faccia un passo avanti e taccia! ”
Questo aforisma di Karl Kraus che monitorava la fine di un epoca, mi chiude sempre la bocca, mi paralizza la mano che preme i tasti…
Che dire……
Facciamo del nostro meglio per non peggiorare il mondo, ecco, ricordiamolo almeno una volta l’anno.
Auguri amici!
Domenica 3 luglio abbiamo deciso di trascorrere una “giornata particolare”.
Tanta voglia di non far niente spaparazzati al fresco di un parco o a mollo in una qualche spiaggia del Delta, o, perché no, di seguire qualche bella iniziativa estiva.
Invece Il Fiume, che poi è il soggetto di queste brevi note, ha deciso di immergersi nel doloroso compito del ricordo. Il “ricordo” e la “memoria” sono nel nostro dna, si usa dire oggi, ed è tanto più vero per chi ha deciso di raccogliere e portare avanti l’eredità lasciata da Luciano Bombarda.
Non ci sono capitali dentro questa eredità, qualche centinaio di euro appena, frutto di molto lavoro con le scuole e qualche Amministrazione Comunale illuminata, qualche contributo di amici e sostenitori, pochi euro destinati alle iniziative che Luciano aveva già programmate nonostante la decisione di tagliare con tutto. Una eredità soprattutto morale, di denuncia delle ingiustizie del mondo e di lotta contro l’apatia e l’indifferenza che accomunava Il Fiume a tanto buon associazionismo.
Un’eredità fatta anche di una mole di materiale bibliografico e non solo, che abbiamo voluto accogliere e di cui dobbiamo farci carico.
Da alcuni anni la collezione di libri, riviste , cd e appunti, notule e biglietti di viaggio, lettere e volantini che Luciano Bombarda aveva messo assieme in anni di attività, aspettava paziente che ci fosse il tempo e la voglia di metterci le mani. Dopo la dolorosa e improvvisa scomparsa di Luciano tutto il materiale era stato rinchiuso alla rinfusa in numerosi scatoloni dormienti a casa dei componenti del direttivo. Grazie alla disponibilità di Antonella e Baci (Giuliano Baccilieri campione di rugby con la moglie amici di Luciano da una vita) con Piero ed Elisabetta, domenica scorsa ci siamo messi al lavoro e abbiamo fatto un po’ di ordine tra gli oggetti e i sentimenti.
Non è stato facile, e si può immaginare perché.
Amici alle prese con una narrazione
Una giornata non è stata sufficiente per classificare quanto raccolto con la furia dell’appassionato da chi spaziava dalla lotta alle mafie, all’impegno sociale in Emergency, dalla Shoah alla storia del Popolo Rom, dalla storia locale a quella internazionale, da chi teneva tutto, dagli scontrini del bar alle ricevute dei rimborsi agli ospiti delle iniziative del Fiume. Tutto racchiuso in scatoloni e cartelline con titolo e data e tenuto, fino a che lui è stato con noi, negli spazi del suo magazzino “di calce e cemento”.
Proprio oggi Oran Pamuk ha scritto su Repubblica un articolo sulla funzione del museo. Ha scritto dei grandi musei ma anche di come scoprì l’esistenza e l’importanza dei musei diffusi in un’Europa in cui la memoria viene riservata a chi ha voglia di scoprirla e farsene carico. Lo scrittore turco scrive di quando “più avanti i piccoli musei nelle strade secondarie delle città europee mi portarono a capire che i musei, proprio come i romanzi, possono anche parlare per le persone per i singoli”.
Non è detto che faremo della biblioteca del Fiume un museo a Luciano, tuttavia quanto raccolto sicuramente parla di lui e ci stiamo interrogando su come questa eredità possa essere utilizzata e condivisa per gli scopi cui Luciano teneva.
Un primo passo è stato fatto, ma per ora basta così.
Dopo un inverno trascorso come Associazione il Fiume a presentare il libro che ha condensato la ricerca di Luciano Bombarda sui profughi dell’Europa degli anni ’40, abbiamo ripreso ad invitare ospiti che abbiano qualcosa da dire in un mondo in cui tra libri, giornali, web, molti scrivono, forse troppi e pochi leggono.
A trovarci a Ferrara e Stienta è venuto stavolta lo scrittore Wlodek Goldkorn. Per chi non lo conoscesse è “un nomade”, nato in Polonia da genitori salvatisi dallo sterminio perchè fuggiti in Russia prima del ’39, scappato con la famiglia nel ’68 dopo che la Polonia si era schierata contro Israele e l’imperialismo mondiale, ramingo per qualche anno tra Israele e Germania fino alla scelta di stabilirsi in Toscana.
Con lui nel presentare il libro “Il bambino nella neve” ci siamo ritrovati a parlare di dignità, di vergogna, di profughi e del futuro dell’Europa. Chi meglio di un giornalista internazionale dalla vita così ricca di esperienza e in contatto con le maggiori personalità politiche degli ultimi 60 anni poteva parlare di tanti temi con autorevolezza e cognizione dei fatti?
Nei due appuntamenti, il primo alla libreria Feltrinelli di Ferrara, condotto dal Marco Contini, giornalista di Repubblica, e il secondo a Stienta, la conversazione ha toccato molti dei temi della narrazione. Il libro si divide tra il ricordo dell’adolescenza in una Polonia vuota del “mondo di ieri” quello dell’ebraismo orientale da cui tutti i sopravvissuti provenivano, e un viaggio terribile nei campi dello sterminio di cui, se escludiamo Auschwitz, poco conosce la maggioranza delle persone .
Difficile condensare in poche righe la ricchezza della conversazione che Wlodek Goldkorn ha tenuto con grande passione con Marco e con i numerosi presenti in un giorno in cui in sottofondo aleggiava la notizia della diffusione nelle edicole del “Mein Kampf” di Hitler.
Pur non volendo scrivere un libro sulla Shoah l’esperienza della distruzione di un popolo che semplicemente “esisteva”, è fondamentale nell’architettura del testo. A Goldkorn è, però, servita per fare un passo in più rispetto alla spettacolarizzazione ed estetizzazione della Shoah cui spesso si assiste.
Fondamentale è il concetto della “memoria” che non deve servire a condensare nel distico “mai più” un successivo disimpegno per tutto ciò che non riguarda ebrei, rom, omosessuali o testimoni di Geova.
La “memoria” è nel suo caso esercizio di ricordo, omaggio ai familiari uccisi, ricordo di un grande vuoto col quale si deve imparare a convivere, ma anche facoltà politica di intervento su quanto oggi deve suscitare lo sdegno che negli anni del Nazismo non si alzò con forza a denunciare nè le aberrazioni linguistiche nè poi quelle materiali.
“Non mi sento vittima” sostiene Goldkorn, che non chiede giustificazioni in quanto ebreo per il fatto che ne sono stati uccisi sei milioni.
Ciascuno è responsabile delle proprie azioni e come scrive nel libro “io penso che essere stati vittima o carnefice non cambia niente. Conta solo la capacità o l’incapacità di mettersi nei panni altrui; non dico di amare l’altro, compito troppo difficile, quasi impossibile, ma di pensare cosa farei io, come mi sentirei io, quali paure avrei provato io, se fossi nella situazione dell’altro.”
La memoria come mezzo di educazione all’agire nel presente e quindi dai profughi degli anni ’40 ai profughi di oggi non cambia molto e la storia chiude il cerchio.
Una lezione di comportamento che non siamo obbligati ad imparare, ma “dimenticare senza avere imparato” è da idioti si diceva in chiusura…
Crediamo che lo storico e sociologo David Bidussa non ce ne vorrà se riprendiamo un suo breve articolo dello scorso settembre per riflettere su una figura di intellettuale tedesco anche al di fuori delle date e degli anniversari. Una riflessione che dalla vicenda dello scrittore si proietta sul nostro presente.
Scriveva Bidussa nel suo blog:
“Sabato 26 settembre 2015 ricorreva il settantacinquesimo anniversario del giorno in cui sul confine franco-spagnolo Walter Benjamin sentendosi un uomo braccato che nessuno era disposto ad accogliere, temendo di essere oggetto di respingimento, ovvero di essere rigettato indietro nelle mani dei suoi possibili carnefici, insomma sentendosi sfuggire tra le mani l’eventualità di poter vivere libero, decise di porre fine alla sua vita.
Molti hanno ricordato la sua genialità, i suoi scritti, il suo essere una figura intellettuale che non riuscì a parlare al suo tempo. Chi ha parlato della scena e delle circostanze di quella morte l’ha proposta come “compimento” coerente di quella vita. Non è improprio ma con ciò si perde si tende a mettere in secondo piano il fatto che esse costituiscono il testo più saliente di questo nostro tempo. Il 25 settembre 1940, Walter Benjamin, in fuga dai nazisti e nel tentativo di emigrare in America, giunge a Portbou, luogo di passaggio alla frontiera franco-spagnola. La Gestapo ha da tempo requisito la sua casa a Parigi e sequestrato la sua biblioteca. Con sé, in quella fuga disperata, ormai privato della nazionalità tedesca fin dal 1939, porta una borsa di cuoio nero che contiene il suo ultimo manoscritto, ancora più importante della morfina che gli sarebbe servita per fuggire via dalla vita, se i nazisti l’ avessero raggiunto, come dice a Lisa Fittko che guida il gruppo dei fuggitivi.
Benjamin, pur essendo cardiopatico, accetta di percorrere il sentiero attraverso le montagne, dove sarebbe stato possibile, anche in assenza del visto di uscita dalla Francia (che aveva promesso l’estradizione verso il Terzo Reich dei rifugiati provenienti dalla Germania), raggiungere la frontiera spagnola. Ma quel giorno la Spagna aveva chiuso il suo confine e il piccolo gruppo di profughi deve tornare indietro. Viene offerta una dilazione di un giorno e nella notte Benjamin, la notte del 25 settembre, scrive un’ultima lettera indirizzata ad Adorno: “In una situazione senza uscita, non ho altra scelta se non quella di farla finita”. Poco dopo ingerisce la morfina che ha con sé e muore. È la sera del 26 settembre. Quella stessa notte arriva il consenso all’ingresso in Spagna. Gli altri passano. Di quell’istante si può proporre un’anatomia e dunque ripetere con Hannah Arendt che uccidersi in condizioni drammatiche quando la propria vita è in mano ai tuoi carnefici, o rischia di divenire loro preda, corrisponde a un atto di libertà. Ovvero è la dimostrazione che ancora si possiede una personalità e dunque si è ancora proprietari del proprio corpo.
Non credo che fosse la condizione in cui si trovò Benjamin. La sua era invece la dimensione del fuggitivo o del profugo, (…). Una condizione che rappresenta la genealogia delle molte scene che riempiono la nostra quotidianità. Per questo vale la pena discuterne. Proprio perché riflettere intorno a quella morte non è erudizione.
Abbiamo impiegato molto a prendere confidenza con la scena di Portbou. Tuttavia, quando l’abbiamo fatto, abbiamo tentato di rendere quella scena la più innocente possibile. Intorno a quello scenario si sono consumati molti malintesi, alcune situazioni incongrue e il meglio e il peggio dell’Europa di allora è emerso. In breve: la catena degli aiuti e l’indifferenza; il doppio gioco e la freddezza burocratica; il senso degli affari – una volta intuita la rilevanza del personaggio Benjamin – e il comportamento della popolazione locale, dall’albergatore – che emetterà una fattura di cinque notti di pernottamento, quando dal 25 settembre sera è chiaro che al massimo si tratterà di una notte – agli addetti del cimitero che, come ricorda Scholem, capito l’affare, mostrano a tutti una tomba falsa.
Una storia senza fine quella di Walter Benjamin, non solo quella della sua persona ma anche quella del suo corpo (che comunque non si trova più). Una storia in cui si intrecciano e si sovrappongono molte cose: i resti di ciò che c’era lì’ – in quella stanza e nel paese quella notte – e che costituiscono la memoria del luogo; il processo successivo di musealizzazione, di storia ricostruita, di “memoria inventata” che costituiscono la costruzione di Portbou come “luogo della memoria”; l’edificazione del memoriale che Dani Karavan ha dedicato a Benjamin. Portbou a lungo è stato solo un punto dove la disperazione di alcuni suoi amici (Adorno, Hannah Arendt, Gershom Scholem) ha provato a misurarsi con la combinazione assurda di caso, di condizionamento della storia e profilo della personalità, come ebbe a sottolineare Hannah Arendt. Poi però qualcosa è cambiato.
Che cosa ci affascina, dopo lungo silenzio, nella scena di Portbou, una delle tante “Termopili del XX secolo”dove sono caduti vittime della barbarie combattenti solitari?
( … ) L’effetto è che la coscienza europea rovescia in merito ciò che è essenzialmente un buco nero della sua storia e nella storia d’Europa: il totalitarismo nazista, prima ancora di diventare una macchina industriale di sterminio, ha espulso dal territorio tedesco circa mezzo milione di ebrei e li ha in gran parte, con traversie e spesso con grandi malesseri, spinti al di là dell’Oceano, spesso con l’effetto di aver contribuito al consolidamento del primato intellettuale degli Stati Uniti nel secondo dopoguerra. Portbou oltre l’attimo di disperazione sarebbe perciò tutto questo. Il segno di ciò che l’Europa poteva essere, della sua capacità di essere se non fosse incorsa in quella parentesi dei totalitarismi. Con una piroetta logica l’Europa, coglie “l’opportunità Portbou” celebrando se stessa contro la sua storia e riducendo i suoi totalitarismi a un incidente di percorso. La conseguenza è duplice: autoassolversi e evitare di farsi delle domande, non solo su allora, ma soprattutto su oggi.
il Memoriale di Portbou
La scena di Portbou chiama altre scene. Sono quelle degli “uomini in fuga “ del nostro tempo su cui nel 1994 invita a riflettere Dani Karavan illustrando il senso del Memoriale Benjamin a Portbou.
“Mi è difficile pensare – affermava Karavan – di rappresentare la violenza attraverso la violenza. Nessun mezzo artistico può pensare di rivaleggiare con la spaventosa realtà di quell’epoca. (…) Se le persone verranno a Portbou e seguiranno i Passages, constatando di persona le difficoltà dell’attraversata, dell’ascensione. … I visitatori avranno modo di fare un’esperienza , che permetterà a ciascuno di tracciare la linea che congiunge la storia alla propria vita. Così, potrà nascere un luogo di meditazione dove ci si potrà ricordare di tutti gli uomini, dei quali Benjamin, in una certa maniera, simbolizza il destino”.
A Portbou convergono molte scene che costituiscono la genealogia di quell’istante. Sono quelle specifiche della vita materiale e concreta di Walter Benjamin quale ce la consegnano le sue lettere del 1939-1940. Quelle della rievocazione e della ricostruzione di chi l’accompagna in quelle a lunga traversata sulle montagna. Quelle di chi condivide con lui la condizione di prigioniero, improvvisamente privato di ogni diritto e che non riesce più a comprendere dove si collochino la linea dell’amicizia, quella della lealtà, quella della dignità di sé. Una condizione e una situazione che chiamano in causa molte cose tra cui due essenzialmente: la propria fragilità, lo spessore civile della società e del sistema politico che reclude. Nella nostra quotidianità ciò significa: il nostro sistema politico, il nostro linguaggio pubblico, le parole che usiamo, le paure che viviamo e l’incapacità di pensare una politica che vada oltre il respingimento. Una politica che assuma la responsabilità di ciò che accade a quelle vite, dopo. Il silenzio con cui si accompagna l’assenza di politica non è meno complice del silenzio che circonda le loro vite. (David Bidussa)