8 ottobre 2015 – La geografia non si insegna quasi più, ma è un peccato

La geografia, che non si insegna quasi più, era la materia preferita di mia madre.  Di sera e soprattutto quando i figli erano in viaggio, seguiva, nel mitico atlante De Agostini, i loro tragitti e le tappe per contestualizzarli nel resto del mondo.

La geografia vien utile quando di tanto in tanto si prospetta un intervento militare in qualche zona del mondo. Ogni tanto i fuochi che covano sotto le braci dell’umana irrequietezza, si ravvivano e danno vita a lingue fiammeggianti e molti arrivano a sostenere che il fuoco si debba spegnere col fuoco.

cartina del quadro di intervento militare di Internazionale
cartina del quadro di intervento militare dalla rivista “Internazionale”

Così mi piace, come la mamma, guardare le cartine e capire se dall’alto è così chiaro vedere il punto che fuma, il brufolo da schiacciare, il cancro da estirpare … ma non è così. Anche sintetizzando, popoli e confini non sono mai netti nemmeno se tracciati con riga e squadra e se lanci una bomba tiri dentro tutti, buoni e cattivi.  Ora un nemico c’è, ma ha radici che come gramigna si diramano dappertutto ed è frutto di povertà, sfruttamento e dittatura oltre, ovviamente, di consistenti partite d’armi che valgono tanti, tanti soldi.

“Aiutare la gente a casa loro”, il miglior slogan del momento, non significa bombardare nei paesi d’origine dei profughi per risolvere i loro problemi. Non so cosa intendano i leader politici quando parlano di questo, so solo che gli unici a fare qualcosa di concreto per questi paesi sono organizzazioni umanitarie quali MSF o Emergency.

I primi, sono stati bombardati nei giorni scorsi, dalla coalizione alleata dentro un ospedale in cui operavano i feriti e i malati.

Sui secondi, allego una breve nota di Cecila Strada (Presidentessa di Emergency) in contatto con i ragazzi dell’organizzazione a Kabul, così per farci un’idea di intervento militare, per non dire poi che pensavamo di combattere Daesh o di intervenire contro Boko Haram…

la situazione in Africa Centrale
la situazione in Africa Centrale e Nigeria che mostra l’infiltrazione di Boko Haram

…Kabul, sera, giardino di casa. Siamo rientrati dall’ospedale e ci sediamo con Luca a bere qualcosa sul tavolino basso, i piedi nudi nell’erba. Luca è un infermiere appassionato, vulcanico come sono quelli che amano il proprio lavoro e vogliono farlo al meglio, e nell’ultimo anno ha fatto il coordinatore del programma Afghanistan. Parliamo di quello che abbiamo visto oggi nelle corsie, di alcuni casi particolarmente brutti, mezzi uomini, famiglie distrutte, bambini a cui la guerra ha cambiato il corpo per sempre.

“Lo sai che cosa mi fa incazzare” – Luca appoggia il bicchiere – “Quando guardi i film di guerra e il ferimento in battaglia sembra eroico, romantico. La retorica della guerra. Quando guardi i feriti veri capisci che non c’è niente di eroico, di romantico. Gli effetti che ha sul corpo … guardali. La guerra trasforma le persone nella caricatura di se stesse. E non sarai mai più lo stesso, se sopravvivi. Queste ferite non finiscono mai: avrai menomazioni per sempre, avrai dolore per sempre, e non guarisci più, non finisce mai”.

In corsia C c’è una mamma. Stava andando a una festa con tutta la famiglia quando la macchina è saltata su un ordigno. Il marito e tre figli sono morti. La bambina piccola ha tre anni e “quando l’abbiamo guardata abbiamo capito che era morta, ti giuro che era morta, nessuno ha pensato che potesse sopravvivere. E invece”, dice Anton il chirurgo,” invece è sopravvissuta, l’hanno curata e dimessa. La mamma ha perso una gamba. La guerra è quella cosa che in un minuto spazza via una famiglia e lascia sole una bambina di tre anni e sua madre mutilata”.

Nella corsia maschile c’è un poliziotto della provincia di Ghazni. Oggi gli hanno spiegato che non c’è niente da fare per la sua gamba, hanno provato in ogni modo a salvarla ma andrà per forza amputata. “Non se ne parla, non posso” è la sua prima risposta. “Non ho fratelli, mio padre è morto, mio figlio è piccolo, ci sono mia madre e mia moglie. Ho bisogno delle gambe”. Sì, ne ha bisogno per lavorare, sennò chi darà da mangiare alla sua famiglia? Lo sappiamo bene, ma non ci sono alternative: quella gamba va tolta. Ne hanno parlato a lungo, domani firmerà il consenso all’intervento. Che vita avrà? E che vita avranno i bambini che si sono presi una pallottola in testa, quelli che hanno perso entrambe le gambe? E i triamputati, i ciechi. Con Luca parliamo del momento in cui, dopo averci messo tutta la tua bravura per curare un paziente, lo dimetti e lo dimetti “là fuori”: il punto in cui finisce il nostro lavoro e comincia l’Afghanistan. Il punto in cui i nostri pazienti tornano a casa e iniziano la loro nuova vita, da mutilati  (………………)

Oggi i genitori hanno portato per una visita di controllo un paziente, un bambino di un paio d’anni. Emipelvectomia: i chirurghi hanno dovuto asportare metà del bacino insieme alla gamba. L’infermiere controlla la colostomia e il sacchetto: i genitori se ne stanno occupando bene. “E’ definitivo. Dovrà tenerlo”, ha detto l’infermiere.

I paesi in guerra sono pieni di persone così. E non c’è niente di romantico in un bambino di due anni con mezzo bacino. “Proprio niente di romantico, niente di eroico”, Luca spegne la sigaretta. “Solo i mostri della guerra”.

Prima presentazione della ricerca sull’internamento libero in Polesine

Il pubblico della presentazione del Libro a Stienta
Il pubblico della presentazione del Libro a Stienta

 

Alla presenza di un piccolo gruppo di amici del Fiume è stato finalmente presentato il volume frutto del lavoro e della puntigliosa ricerca di Luciano Bombarda sulla persecuzione degli ebrei stranieri in Polesine dal 1941 al 1945.

Per gli affezionati la vicenda è nota, per il pubblico più ampio lo diverrà dopo che il libro sarà presentato in molte sedi nei prossimi mesi. Il battesimo del prezioso lavoro si è voluto tenere nel corso dell’annuale Cena del Fiume spostata a settembre proprio per attendere la pubblicazione.

Fabrizio Fenzi, del direttivo del Fiume, ha introdotto la serata lasciando ad Alberta Bezzan la parola per la ricostruzione della genesi della ricerca e del rapporto con Luciano Bombarda e l’Associazione; a Chiara Fabian è toccato invece illustrare come si è dato vita al libro avvalendosi di un rapporto con l’ANPI provinciale e di Stienta, rappresentata nell’occasione da Miro Paiato, e di un contributo concesso dalla Regione Veneto in base alla legge che valorizza gli archivi minori.

Fabrizio Fenzi, Chiara Fabian e Alberta Bezzan
Fabrizio Fenzi, Chiara Fabian e Alberta Bezzan

Tra il pubblico la moglie ed il figlio di Luciano Bombarda, cui il libro è stato dedicato congiuntamente alla storica Francesca Cappella deceduta giovanissima per cancro. Solo alcuni dei co-protagonisti della ricerca erano presenti, Lodovica Marabese a Maria Grazia Lovato, ma molti hanno inviato i loro messaggi di ringraziamento per l’iniziativa non potendo esser presenti. Il burrascoso temporale che ha preceduto la serata ha impedito alcune presenze, tra cui quella di un rappresentante della comunità Ebraica di Padova, mentre Anna Quarzi ha rappresentato l’Istituto Storico di Ferrara.

Dopo la presentazione e l’aperitivo all’aperto, la cena si è svolta dentro il capannone messo a disposizione dalla Fondazione Arca e grazie all’apporto delle signore del Circolo Arci di Stienta e di un bel gruppo di giovani hanno cucinato e servito il ricco buffet. Con l’occasione il prof. Roberto Felloni ha esposto i pannelli della mostra sulla ricerca della vicenda degli internati a Taglio di Po che è un approfondimento recentissimo alla ricerca de “Il Fiume”.

Un ringraziamento particolare da parte dei relatori è andato al Comune di Costa di Rovigo e al sindaco Antonio Bombonato che con la moglie Luisa Cappellozza sono stati protagonisti di una delle storie più toccanti per aver ospitato il piccolo Manni Buchaster prima della sua deportazione ad opera dei Nazisti.

Tra i finanziatori del progetto, ringraziati durante la serata, si è distinta anche la Clinica Odontoiatrica adriese Biscaro-Poggio che ha capito l’interesse del portare alla luce queste vicende sconosciute al pubblico ma trascurate anche da molta storiografia.

Una bella serata nel ricordo di Luciano e di Francesca vivi in tutti i presenti con il loro sorriso e la loro umanità.

La mostra sulle vicende di Taglio di Po

5 settembre 2015 – Cena del Fiume e presentazione libro

“Vedi, ci sono ancora deboli residui di civilizzazione rimasti in questa barbara carneficina che un tempo era conosciuta come umanità. 1 …”

La copertina del libro di recente pubblicazione sull'internamento libero in Polesine
La copertina del libro  sull’internamento libero in Polesine

 

Nella citazione del grande scrittore Stephan Zweig che il direttore del “Grand Hotel Budapest” pronuncia in una delle scene del film uscito nel 2014 (centenario dello scoppio della I Guerra Mondiale) sta una piccola verità o forse una grande speranza cui ci attacchiamo con forza.  La speranza che ci sia ancora un residuo di civiltà nell’umanità che ci circonda, un’umanità che pur uscita da due guerre devastanti, sembra ricadere nella tentazione di riprovarci.

Come persone che sperano di poter fare qualcosa, seppur con i limiti della loro condizione, abbiamo completato e pubblicato una ricerca sulla persecuzione antiebraica in Polesine durata quasi dieci anni e portata avanti da un uomo attaccato alla verità, alla giustizia e alla solidarietà, più che alla sua stessa vita.

Luciano Bombarda con l’aiuto di molti amici che lo hanno affiancato nel tempo, aveva raccolto una grande mole di dati e non è stato facile condensarli nella pubblicazione che porta il titolo “…Siamo qui solo di passaggio. La persecuzione antiebraica in Polesine 1941-1945”.

Questo titolo viene da una frase dell’ultimo biglietto scritto da Werner Schlòss, giovane ebreo viennese internato a Fiesso Umbertiano con i genitori, prima di essere caricato sul treno piombato per Auschwitz.   Lo scriveva agli amici Aldo e Mario Bombonati che lo avevano accolto nella loro casa di campagna, profugo e fuggiasco dalla furia nazista, dal campo di Fossoli.  Werner e i genitori vennero deportati e furono tra le vittime della Shoah italiana.

Abbiamo raccontato la sua storia e quella di molti altri perseguitati , che vissero nei piccoli paesi della provincia di Rovigo per alcuni anni nel corso della seconda Guerra Mondiale.

Gli ebrei in italia erano solo di passaggio, ma non sfuggirà il doppio senso di questo titolo… siamo tutti quì “solo di passaggio” e per questo non si giustifica la ferocia con la quale perseguitiamo esseri umani senza colpa in nome del denaro e del tornaconto personale o di una ideologia barbaramente appoggiata ad una religione qualsiasi.

Luciano lo ha voluto ribadire con troppa forza, forse angosciato dalla piega che, aveva intuito, stava prendendo il mondo, forse disperato per non sentirsi capace di incidere se non col suo esempio.

Anche noi siamo sconfortati dalla nostra incapacità di azione e allora abbiamo provato a raccontare come si è svolta una storia per far luce su come anche tante storie attuali si stanno svolgendo.

Non possiamo rimanere indifferenti ai provvedimenti dei Prefetti, alle reazioni degli Amministratori locali, alle proteste delle comunità che oggi si trovano a dover ospitare profughi che scappano dai paesi in guerra. Una guerra assurda ma soprattutto di cui non si capiscono gli attori e le loro ragioni, nè i possibili sviluppi. Dopo aver letto i documenti di decine di archivi non siamo riusciti a scrivere in modo distaccato tante storie di viaggi forzati, di fortune dilapidate alla ricerca di una nave per lasciare l’Europa. Non siamo riusciti a leggere la storia senza pensare al presente e alle masse di disperati asfissiati nelle stive di carrette del mare.

Non c’è paragone tra la Shoah e lo scenario di guerra attuale, ma prese a tratti le vicende degli “internati” del 1942-43 hanno molto in comune con quello che vediamo oggi.

Il 5 settembre a Stienta in Località Zampine nel corso della tradizionale cena del Fiume, verrà presentato ufficialmente ai soci ed ai sostenitori della pubblicazione, il libro di Maria Chiara Fabian e Alberta Bezzan. Il lavoro sostenuto da un piccolo finanziamento della Regione Veneto ha avuto compimento grazie ad una raccolta fondi internazionale i cui principali partecipanti sono stati il Comune di Costa di Rovigo, la CIGL di Rovigo, la comunità ebraica di Padova e la Clinica dentale Biscaro Poggio di Adria.

Accanto a questi principali, molti privati hanno voluto prenotare pagandolo in anticipo il volume pubblicato dalla casa editrice Panozzo di Rimini e curato nella sua veste grafica in collaborazione con Roberto Balestracci.

Sono stati invitati i sindaci dei 20 paesi del Polesine coinvolti nella ricerca ma le presentazioni ufficiali verranno organizzate nei prossimi mesi.

1Grand Hotel Budapest, film di Werner…del 2014 ispiirato all’opera di Stefan Zweig

7 maggio 2015 – Manuela Dviri Vitali Norsa ambasciatrice di speranza

Manuela Dviri
Manuela Dviri

Ferrara -Sala Alfonso I – Castello Estense ore 17.00

Costa di Rovigo (Ro) – Biblioteca M. Buchaster – ore 21.00

Vissero tutti i miei personaggi, sette anni sette di inferno e due di terrore. Trasformati da un giorno all’altro in apolidi, delinquenti e fuggiaschi dalla loro stessa patria, riuscirono a salvarsi. Poi tornarono a casa e ricominciarono da capo. Loro erano i salvati, non i sommersi”

Manuela Dviri dopo articoli e libri che con passione civile hanno fotografato la grande voglia di pace di tanti cittadini di Israele e Palestina,  ha dato alle stampe la storia della sua famiglia. Un cambio di passo?

In realtà la ricerca entusiasmante e a volte dolorosa delle vicende che hanno caratterizzato il grande albero genealogico familiare le è servito per un duplice scopo. Da un lato per fissare con la scrittura le vite e le vicende dei suoi cari così da renderli immortali assieme all’Italia in cui hanno vissuto.  Allo stesso tempo per scrivere di suo figlio Yoni, caduto nella guerra del Libano, e del conflitto in Medioriente, che la vede tra le voci più critiche nel suo paese d’adozione, Israele.  In effetti il libro è alternanza di narrazione storica e di affacci sporadici sul presente dell’ultima guerra arabo-israeliana, quella dell’estate 2014, in cui l’autrice esorcizza la paura tuffandosi nel passato.

La scrittura e il suo grande potere di mantenere in vita salvano dalla depressione del sentirsi impotenti di fronte a fatti così dolorosi, questa è una chiave di lettura possibile. Come nel racconto di David Grossmann, “Ad un cerbiatto somiglia il mio amore”, dove la madre scappa dalla casa e vaga tra i monti e i sentieri del paese per sfuggire il postino che le porterà la notizia di quella stessa perdita, così tra le pagine che raccontano l’Italia e gli anni della Vergogna, l’autrice fa trapelare il ricordo di una vita sacrificata assurdamente.  E il racconto diventa un modo per allacciare tra loro le vite che non ci sono più ma continuano a vivere di memoria.

Se la Shoah ha mietuto, tutto sommato, poche vittime tra le famiglie di Manuela Dviri che hanno subito la disfatta sociale ed economica ma in gran parte hanno potuto ricominciare da capo, il dopo in Israele stende un velo di tristezza alle pagine del libro.

Un libro che sembra interminabile perché, lo sa bene chi fa ricerca, ad un documento si aggiunge un ricordo, e poi una testimonianza rivela lati sconosciuti, ed ancora qualcuno aggiunge un dato e così via.  Tra i rami intrecciati e intricati del grandissimo albero delle famiglie, nel susseguirsi di momenti felici e tristi vicende, si può leggere tuttavia una grande determinazione a riscattare il destino passivo di quelle generazioni e una forza a trasformare il dolore in nuova energia.

Non poteva Manuela Dviri, portavoce della delegazione israeliana all’incontro di Papa Francesco con il Primate di Costantinopoli, Shimon Perez e Abu Mazen, non terminare con la speranza.

Non mi arrendo neanch’io. Ce la faremo , noi che crediamo nei diritti inviolabili e inderogabili dell’uomo, di ogni uomo, ovunque nel mondo. E riusciremo a vivere in pace. Se non in questa generazione, ce la faranno i nostri figli, nella prossima. O i nostri nipoti. Dobbiamo farcela. Siamo ancora qui

 

A PROPOSITO DI PROFUGHI E DEL PRIMO MAGGIO…E DEI FONDAMENTI DELLA DEMOCRAZIA

I mugnai e i falegnami di Pontemanco
I mugnai e i falegnami di Pontemanco

A 70 anni dalla liberazione dal nazifascismo ci sono ancora molte storie da raccontare. Una è quella di Pontemanco e delle famiglie Brunazzo e Bertin.

A Pontemanco, borgo antico ai piedi dei Colli Euganei (oggi frazione di Due Carrare) settant’anni fa erano quasi tutti socialisti, di quelli che si riferivano a Matteotti, non a Craxi.  Dopo l’8 settembre del 1943 arrivarono in paese alcuni profughi ebrei che fuggivano dall’internamento libero a Rovigo. Clandestini e ricercati dal ricostituito governo fascista della Repubblica di Salò e dai Nazisti.

Per loro si aprirono le porte di casa Brunazzo; Guerrino, la moglie e due figli maschi, uno in seminario, Achille,  e l’altro, Isidoro ventenne, diedero ospitalità dal 31 dicembre 1943 al 27 aprile 1945 a ben 7 persone, quattro adulti e tre ragazzi a rischio della vita.

Tutto il paese che sapeva aiutò e chi non sapeva ma intuiva tenne la bocca chiusa.  Da 7 persone a 11 la differenza è tanta e in tempi di guerra col razionamento e la scarsità di viveri non fu facile far bastare le tessere annonarie.      Il mugnaio Bertin fornì legna e farina e quanto poteva, il farmacista dottor Fortin fornì medicine e assistenza.   Fu così che gli Hasson e i Mevorach con la cuginetta Estica, in fuga da Jugoslavia e Bosnia Erzegovina riuscirono a salvarsi e continuare a vivere.

Oggi sarebbe stato molto più difficile.       Chi scappa con i barconi a una morte sicura per una morte ”probabile” non può far conto della solidarietà e della apertura delle famiglie.     Chi scappa da una guerra non diversa dal secondo conflitto mondiale, anzi forse più complessa e meno facile da capire e affrontare, deve contare solo sulla salvezza dovuta dei governi.    Questi ultimi si palleggiano oneri e responsabilità ma per fortuna intervengono.

In un piccolo paese della bassa padovana il Sindaco, di base leghista, ospita alcuni profughi, ma  i suoi stessi cittadini protestano e insorgono.

Intorno a noi decine di case vuote marciscono con il cartello “vendesi” appeso alle cancellate rugginose, ma non c’è posto per i profughi.     Non si tratta di buonismo, il buonismo era quello dei Brunazzo e dei Bertin e della Pontemanco resistente.